La Cina rafforza il mercato gloobale?

2 Novembre 2012
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Gianfranco Sabattini

In un articolo dal titolo “La rivoluzione di Deng”, apparso di recente su “Il Sole 24 Ore”, Alberto Mingardi presenta in anteprima al pubblico italiano il libro di Ronald Coase e Ning Wang, How China Became Capitalist (Come la Cina è diventata capitalista).
Secondo Mingardi, si tratta di un saggio di grande importanza, per due ordini di ragioni. Intanto, perché “è una lucida e approfondita analisi che viene alle prese con una delle più affascinanti questioni dei nostri tempi: la trasformazione del comunismo cinese in «qualcosa d’altro»”. Inoltre, perché costituirebbe un testamento intellettuale, che inviterebbe a valutare i fatti economici sulla base di solidi risultati esperienziali. Quest’ultima ragione è corroborata dal fatto che il premio Nobel Ronald Coase, il più famoso dei due coautori, giunto alla veneranda età dei centouno anni, ha sempre considerato il mondo con occhi smithiani, convinto che l’economia moderna “dacché non è più uno studio dell’uomo per come esso è realmente, ha perso l’ancora ed è andata alla deriva allontanandosi dalla realtà economica”.
Dove starebbe l’importanza dal punto di vista dell’evoluzione dell’esperienza politico-economica cinese del saggio di Coase e Wang? Per individuarla, basta seguire la narrazione che Mingardi fa della trasformazione che, secondo i due autori, avrebbe caratterizzato il comunismo cinese. La trasformazione avrebbe avuto il suo principale artefice nel leader post-maoista Deng Xiaoping; questi, uscito vittorioso dalla lotta interna al Partito comunista, avrebbe consentito, non solo di sperimentare pragmatici cambiamenti istituzionali, ma anche concorso a diffondere nella società cinese uno spirito innovatore.
Malgrado la sua apertura alla “novelty”, Deng avrebbe saputo conservare alla Cina una “residua dedizione al socialismo”, tale da consentire al grande Paese asiatico di conservarne il “nucleo essenziale”, espresso dalla proprietà statale delle imprese strategiche. Ciò avrebbe permesso di inaugurare con successo la liberazione dell’economia, attraverso un insieme di “rivoluzioni marginali”. Queste, a differenza di quanto è accaduto in altri Paesi dell’Est europeo (il riferimento evidente è all’ex-URSS), dove la liberazione dell’economia è avvenuta con programmi di privatizzazione realizzati prima che fosse formato un settore privato, avrebbero permesso che l’analogo fenomeno avvenisse in Cina solo dopo che lo Stato aveva “disegnato le regole” in base alle quali alcuni settori di attività potessero essere restituiti a un presunto libero mercato.
Secondo gli autori, si è trattato di un mercato costruito dall’alto, che ha escluso a priori che forze imprenditoriali vive potessero emergere dal basso, sorrette unicamente dalle forze libere delle idee. La Cina, tuttavia, pur non essendo il primo Paese al mondo per libertà economica, avrebbe realizzato il suo sistema capitalistico, non già tramite una “transizione” da un’economia pubblica ad un’economia privata, ma tramite una “mutazione” delle prima; e se con la mutazione non sono state rimosse le distorsioni e le interferenze “nell’ordine concorrenziale” del controllo pubblico, il capitalismo cinese avrebbe avuto un merito: quello di aver contribuito a mondializzare la logica capitalistica e a rafforzare “l’ordine globale di mercato”. Così, un ordinamento liberale mondiale risulterà più sostenibile, se il modo capitalistico di produrre potrà affermarsi anche oltre i confini dell’Occidente, consolidandosi nei più diversi contesti culturali e sistemi politici. Che cento fiori sboccino, conclude la sua narrazione acquiescente Mingardi, che cento scuole rivaleggino. Questo augurio, è auspicabile per i sistemi democratici dell’Occidente, pur sotto gli esiti devastanti del loro capitalismo? E’ lecito opporre qualche riserva.
L’apertura del mercato interno, in assenza di democrazia, ha favorito la rapida comparsa in Cina di istituzioni economiche private. In particolare, ha favorito la comparsa di una figura particolare di imprenditore, che la letteratura economica, di estrazione cinese, ha denominato imprenditore istituzionale, diversa da quella dell’imprenditore innovatore definita da Joseph Alois Schumpeter. Il ruolo dell’imprenditore istituzionale avrebbe concorso a distruggere le barriere istituzionali contrarie al mercato; in realtà, l’imprenditore istituzionale si è configurato in Cina come una sorta di “funzionario pubblico”, di “concessionario” o di “impresario” cui sono state affidate, sotto stretto controllo pubblico, particolari produzioni all’interno di specifici settori produttivi, in partnership con operatori cinesi. Contrariamente all’imprenditore innovatore, però, non ha concorso a creare condizioni rispondenti alle “esigenze” di un’attività imprenditoriale autenticamente innovativa ed autonoma, possibile solo in presenza di istituzioni democratiche.
L’azione dell’imprenditore istituzionale ha certamente concorso a prefigurare opportunità che hanno contribuito a rendere possibile la privatizzazione di gran parte del sistema economico cinese. Resta tuttavia il fatto che, qualunque previsione possa essere formulata sul futuro della Cina, considerati i deficit di democrazia in presenza dei quali è avvenuta la mutazione del sistema politico-economico, non è possibile prescindere da una risposta alla seguente domanda: in assenza di controllo democratico, può la Cina assumere crescenti livelli di responsabilità globale, senza considerare le implicazioni negative che, sul piano interno e su quello internazionale, il suo capitalismo di Stato può produrre, in assenza di controllo democratico, sull’ordine e sulla stabilità del funzionamento dell’economia-mondo? La risposta non può che essere negativa; per cui è da escludersi, come l’esperienza sta a dimostrare, che il capitalismo di Stato cinese possa concorrere a migliorare l’ordine globale di mercato, come prevedono Coase e Wang. Può darsi che l’esito della mutazione dell’economia pubblica cinese possa costituire in futuro uno dei cento fiori coi quali celebrare la transizione di tutto il capitalismo mondiale verso sue forme di funzionamento più rispettose degli stati di bisogno delle società civile globale; ma, attualmente, il capitalismo cinese non è che un fiore appassito, ancora più appassito, di quelli espressi dalle diverse forme attraverso le quali il capitalismo dell’Occidente è evoluto sino alla situazione attuale.

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