Davide Lajolo politico

4 Novembre 2012
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Aldo Tortorella

 

Ricorre il centenario della nascita di Davide Lajolo, scrittore, poeta e giornalista, ma sopratutto dirigente comunista e storico direttore de L’Unità. Ecco un ricordo di Aldo Torotorella, che delinea insieme un  quadro della temperie politica dopo la Resistenza. 

 

Ringrazio innanzitutto Laurana Lajolo e l‘istituto Gramsci per avermi offerto la possibilità di questo omaggio a Davide  Lajolo nel centenario della sua nascita. Io porterò qui essenzialmente una testimonianza e un ricordo che vuol essere solo uno stimolo, per chi voglia e possa farlo, ad una ricerca su un aspetto poco noto, ma molto significativo, di quel mondo scomparso cui appartenne per quasi mezzo secolo il maggiore partito della sinistra italiana. Uno stimolo a partire dal titolo che mi è stato proposto e che ho scelto, titolo in cui si promette di parlare di  Davide Lajolo come dirigente politico di un partito, mentre è conosciuto piuttosto per molti suoi scritti letterarii di valore e, al loro tempo, di grande successo. Certamente, è difficile, anzi praticamente impossibile, distinguere la figura di Davide Lajolo politico dall’opera di Ulisse il corsivista, il giornalista, il direttore della Unità per dieci anni e per altrettanti del settimanale Vie Nuove, o dall’opera  sua di saggista e scrittore di narrazioni autobiografiche che furono di educazione e di pensiero politico in forma di opera letteraria. Solo lui e Ingrao hanno diretto l’Unità così a lungo, e il settimanale Giorni-Vie Nuove ebbe  vita vera finchè egli ne guidò le sorti. Ma  proprio per la politicità del suo impegno di giornalista e di scrittore si deve parlare di una sua peculiare  funzione dirigente  e non solo per il fatto che Lajolo fu deputato per quindici anni e fu per un quarto di secolo membro del Comitato centrale del Pci (quando quell’organismo era di decine e non centinaia di persone come accadde più avanti nel tempo). Dirigente non è chi ne reca i galloni, ma chi esercita con il pensiero o con l’azione o con entrambi un compito di creazione di realtà sociali e politiche: e a questo modello di dirigente appartenne Lajolo. Si è scritto spesso di lui che egli sia stato un ‘comunista scomodo’ o  un ‘eretico’, intendendo dire che egli fu un non conformista, un uomo con un pensiero proprio. Questo è vero, ma non dice tutto, non gli restituisce quello che gli si deve,  non dice l’essenziale del posto che gli spetta nella vicenda di quella parte della sinistra italiana.  Si può essere scomodi   o passare da eretici senza disturbare nessuno e senza costruire nulla di nuovo.  Al contrario, Lajolo va storicamente ricordato, a me sembra,  per la sua capacità creativa e costruttiva, e cioè come uno dei protagonisti di primo piano della formazione di quella originalità del Pci  che ne fece un modello unico – irripetibile -  e  il più forte e rispettato partito dell’occidente capitalistico con quel nome, mentre altri nati o rinati  nel dopoguerra dal medesimo ceppo – e pur originariamente  grandi – declinavano o scomparivano. Parlare di Lajolo come dirigente del Pci vuol dire ricordare il contesto in cui la sua azione politica si è sviluppata e le scelte che ha compiuto  nella lotta politica di quel tempo e nei contrasti interni al suo partito. Le definizioni di ‘scomodità’ e di ‘eresia’ presuppongono la tradizionale immagine del partito cui Ulisse appartenne per 50 anni come quella di  una compagine di credenti dominata da una ortodossia, come fu da un certo momento in poi nel partito sovietico. Non fu così. Quel partito per tutta la sua vita fu squassato da lotte talora asperrime, non mai chiuse una volta per tutte anche per la esistenza di centri diversi di iniziativa sparsi per l’Europa e il mondo nel tempo della clandestinità in patria. E quando, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, il Pci mostrò un suo volto unitario, e incominciò la sua ascesa, viveva egualmente un travaglio interno che fu, all’inizio, drammatico. La politica di Togliatti tutta centrata sulla fedeltà alla democrazia e alla nazione nell’interesse medesimo dei lavoratori, che appariva e ancora viene presentata come indiscussa, si dovette affermare tra duri contrasti e conobbe per anni avanzamenti e arretramenti. La tendenza ostile alla politica di Togliatti, aveva come punto di riferimento uno dei due vicesegretari del partito, Pietro Secchia, forte  di una rete ben ramificata di quadri intermedi  essendo stato, nella Resistenza, commissario politico delle brigate Garibaldi e, dopo la liberazione, capo della commissione di organizzazione  dove rimarrà fino alla metà degli anni 50. Si trattò, dunque, di uno scontro politico interno ai gruppi dirigenti di grande portata, a lungo incerto,  in cui non mancarono le intromissioni esterne , e cioè del partito sovietico. Non si  deve dimenticare che all’inizio degli anni 50 la Direzione del Pci votò una risoluzione, con la sola eccezione di Luigi Longo e Umberto Terracini, per allontanare Togliatti dall’Italia e spedirlo nuovamente nell’Unione sovietica contro il suo parere,  con il pretesto di accogliere la richiesta di fargli dirigere l’Ufficio di Informazione dei partiti comunisti, un organismo nato per ripristinare la primazia sovietica  nel movimento comunista internazionale contro la dissidenza jugoslava ma anche sotto il segno di una esplicita polemica contro la linea del  Pci considerata pericolosa per il canone ideologico prevalente . Per la formazione del partito definito come  ‘nuovo’ rispetto alle idee, ai concetti e ai linguaggi del passato – e di altri partiti detti ‘fratelli’ – l’Unità fu in uno strumento determinante e quella di Milano diretta da Lajolo dal 48 al 58   spiccò tra le altre (ci furono fino al 1957 quattro diverse edizioni e redazioni) proprio per le qualità di Ulisse polemista vigoroso  e  uomo libero , pur in una disciplina che veniva spontanea dinnanzi ai vecchi dirigenti usciti da prove durissime sia nella lotta antifascista sia sotto il regime staliniano.  La stessa figura di Lajolo, venuto tra i comunisti durante la resistenza  provenendo da una prima giovinezza di fascista impegnato, era emblematica di una forza politica dove gli antichi e riconosciuti meriti non facevano per se stessi grado e non abilitavano a tracciare la linea politica. Lajolo diventò, così, quasi naturalmente, uno dei sostenitori più efficaci del partito nuovo, in stretto legame politico con Giancarlo Pajetta : anche se la comune indole ribelle aveva generato nel passaggio tra l’adolescenza e la giovinezza percorsi politici opposti , l’uno nelle galere fasciste per 12 anni, l’altro volontario fascista in Spagna convinto che da quella parte fosse la vera rivoluzione. Quello che Lajolo rappresenta e contribuisce a formare è un partito che vuole cambiare , aprirsi culturalmente e rinnovarsi, che rifiuta la tentazione, pur molto presente, a chiudersi in una trincea settaria dopo la sconfitta del 48.  Se Togliatti aveva chiamato nel Comitato centrale grandi intellettuali di tendenze culturali assai diverse, da Antonio Banfi a Concetto Marchesi, Lajolo appena può ritornare la terza pagina – perché i giornali hanno un po’ più di carta – spalanca le porte, senza esclusivismi ideologici, ai migliori del tempo: da Pavese a Calvino, dalla Ginzburg alla Masino, a tanti altri.   Contemporaneamente, nella lotta politica di quegli anni che era allo stesso tempo di opposizione ai duri governi centristi e di sottintesa polemica interna di partito Lajolo portava allora e portò poi un timbro e una sensibilità propria. Era, la sua, una concezione, spontaneamente vissuta, della politica come passione, quella che il fascismo aveva tradito,  e quella passione avvertibile e sincera ne faceva un dirigente popolare e amato e un costruttore di quella comunità umana che veniva diventando il Pci. Conobbi Ulisse nel ‘46, essendo io tornato a Milano da Genova dove avevo fatto l’ultima parte della resistenza e partecipato a fondare la edizione genovese: egli, poco più che trentenne, era allora stato chiamato da Torino come redattore capo e a me, appena ventenne,  era stato affidato, certo con eccesso di fiducia, il servizio interni con dei redattori letteratissimi, come Fidia Gambetti, delicato poeta, con una storia simile a quella di Ulisse, e altri più esperti di lotta partigiana che di parole, come lo straordinario comandante Mezzadra dell’Oltrepò pavese. Non fu un incontro facile tra un ragazzo, se non ricordo male, un pò saccente, che masticava di filosofia e credeva di avere già chissà quale lungo passato alle spalle e un uomo fatto, che sembrava e voleva sembrare l’immagine di una rude semplicità contadina e di una  immediatezza comunicativa. Ma, credo, imparai presto a vedere quanti turbamenti e, anche, quanto dolore ci fossero dietro l’apparenza brusca e sicura  di quell’uomo profondamente buono. Da Ulisse appresi la importanza politica non solo degli editoriali o delle cronache del potere ( la nota politica, si chiamava) e di quelle sindacali, ma della cronaca bianca e nera, per cui a quei tempi non c’erano sezioni speciali. Ma si apprendeva  da lui, soprattutto, ad essere vicini alla sensibilità e alle passioni popolari. I suoi corsivi non erano, come saranno poi quelli di Fortebraccio, modelli di ironia e di satira, ma  volevano parlare, e parlavano, direttamente al sentimento e al buon senso di ciascun lettore e di tutti, e venivano costruendo una mentalità nuova.  “Caro Papa” fu una volta l’inizio e il titolo di un suo memorabile  corsivo. Quel rivolgersi familiarmente, per una qualche critica che non ricordo, ad una istituzione religiosa volutamente avvolta  – allora  ancora più di oggi – in un’aura d’intangibilità sacrale e in tempi di scomunica imperante, diventava per ciò stesso lezione di una laicità serena che evita la grossolanità e non teme  il rispetto per l’altro da te. E’ un esempio soltanto di una funzione educativa fuori dagli schemi  del tempo – sicuramente incompresa dalla parte più conservatrice dei quadri d’allora, formati alla scuola dolorosa e severa – e necessariamente musona – della clandestinità. Ma vi erano altri, tra quelli che ci apparivano i vecchi, che , invece,  comprendevano e aiutavano lo sforzo di fare dell’Unità un giornale popolare aperto a una pluralità di interessi e di culture : in primo luogo il segretario del partito. Si narrava allora che Togliatti all’assai influente dirigente, di abbondanti fattezze, che protestava con lui perché l’Unità aveva messo in prima pagina il caso di una balena spiaggiata anziché un suo importante discorso  avesse risposto: “Quando ti spiaggerai tu, ti metteremo in prima pagina.”   Non so se fosse un aneddoto vero, ma credibile lo era certamente. Lajolo non avrebbe potuto reggere tutto quel tempo, così come Ingrao a Roma, se non ci fosse stato un fortissimo argine alle pressioni personali e politiche di tanti. Lajolo fu apprezzato, in primo luogo, da Togliatti e da Longo. Fu Amendola che lo mandò all’Unità e Pajetta lo volle come suo successore. Fu, quello, un tempo  in cui tener fede alla scelta della costruzione democratica attraversò fasi  estremamente difficili. Era assai concreto il pericolo che la situazione sfuggisse di mano, con  la conseguenza di una catastrofe per il movimento dei lavoratori e del paese, dinnanzi all’asprezza dello scontro sociale e politico – dalla strage di Portella della Ginestra, all’attentato a Togliatti,  ai caduti nelle strade e nei campi per le lotte operaie e contadine fino all’eccidio di Modena del 1950. La popolarità conquistata sul campo dal direttore della Unità, che recava con se anche la fama di partigiano combattente, doveva essere spesa anche nelle piazze a illustrare una politica non solo lontanissima da ogni richiesta impossibile ma che chiedeva alla classe operaia di farsi carico, come classe potenzialmente dirigente, dei guai e dell’avvenire del Paese.  “Fino a cinque comizi in un giorno” annotò una volta Ulisse. Ma la prova più lacerante venne con la rivelazione dei crimini di Stalin e con la insurrezione popolare in Ungheria. Comune fu allora per molti, che trassero poi conseguenze diverse,  la consapevolezza che una storia era finita e un’altra doveva cominciare, alcuni concludendo che col Pci non c’era più niente da fare, altri di noi convincendosi e sperando che fosse possibile cambiare dall’interno, su un cammino che era già stato diverso – e in qualche caso, opposto –  rispetto a quello dei partiti comunisti al potere. Tra chi scelse di restare fu Ulisse: con un travaglio , che vidi da vicino, più doloroso e più sofferto che per altri perché per la seconda volta sentiva la ferita del disinganno  e anche perché, forse, più passionale era stata la sua adesione.  Ma questa scelta lo indurrà a farsi un forte sostenitore del rinnovamento di mentalità e di quadri di cui furono tra i primi protagonisti Giorgio Amendola, andato all’organizzazione dopo Secchia, e Pajetta, alla propaganda.  Così, quando arriverà, nel 68, il dramma della Cecoslovacchia, Ulisse  sarà con Longo in prima fila nella difesa del socialismo dal volto umano e nella condanna dell’intervento e cercherà, poi, contatti con gli uomini della resistenza. Pelikan , che fu tra i protagonisti della primavera di Praga, lo ricorda assieme a Rossana Rossanda e a Lucio Lombardo Radice tra coloro che lo accolsero affettuosamente in Italia, contrariamente alla ufficialità del partito. Le battaglie per la libertà della cultura, contro la stupidità della censura, e contro le forme di oscurantismo allora diffuse, iniziate come direttore dell’Unità  avranno seguito nell’attività parlamentare, nella commissione di vigilanza sulla rai, di cui sarà vicepresidente e nella elaborazione di leggi sulle attività culturale e in particolare sul cinema.  Il Parlamento era allora la espressione di molta parte delle forze migliori non solo di ciascun partito ma del paese, luogo di scontri accesi ma dentro una comunanza costituzionale e antifascista dei più autorevoli . Il tempo era quello della fine del centrismo e dell’inizio del centro sinistra. Verso di esso l’opposizione, cui Lajolo partecipa,  stabilisce una gara sulle posizioni riformatrici, sui primi – che saranno gli ultimi – tentativi di programmazione economica. E fu anche il tempo del rumore di sciabole di cui parlò Nenni, del tentativo di colpo di stato che doveva “enucleare”  i dirigenti comunisti ma non solo loro, che  porta il nome del generale di carabinieri De Lorenzo ma coinvolse il più alto potere dello stato ed ebbe come conseguenza l’arretramento programmatico e politico del governo  di centro sinistra di Moro.   Lajolo, che era divenuto vicepresidente della commissione interni, sarà a lungo occupato nel lavoro di disvelamento e di garanzia democratica. In quel periodo, dopo la morte di Togliatti, iniziò nel Pci la divaricazione tra due linee. L’oggetto era la democrazia di partito e l’atteggiamento verso la nuova realtà creata dalla trasformazione economica e sociale del paese. Per la democrazia interna Ulisse era oggettivamente più sensibile all’apertura dapprima invocata da Amendola e poi raccolta e sviluppata da Ingrao. Da uomo legato alla terra e consapevole delle urgenze dei bisogni popolari, lo convinceva di più, mi parve, la concretezza di Amendola che le prospettive di più lungo periodo proposte da Ingrao. Verso la fine del periodo parlamentare, durato tre legislature, Longo affida a Ulisse il settimanale Vie Nuove, ormai esangue. Ed egli intende e svolge questo compito con la sua abilità giornalistica, ma con una intenzionalità politica assai precisa ed evidente : quella di aiutare il suo partito sulla strada della propria piena autonomia. Nel 1969 essendo segretario Longo, Enrico Berlinguer era stato inviato all’ultima conferenza dei partiti comunisti, che il Pci non aveva voluto, col mandato di non firmare nulla a parte un documento sulla necessità della pace e della convivenza pacifica. E così avvenne. Ma questa strada di distacco non era pienamente condivisa da una parte del gruppo dirigente (ad esempio Amendola) che pur  aveva guidato il rinnovamento successivo al 56 . La lettera a Pajetta, qui citata da Agosti, in cui Ulisse scrive, che egli ha sentito “chi di dovere” per la pubblicazione del memoriale di Mlynar, rende esplicito che egli partecipa, ancora una volta, ad un confronto –e scontro – tra due posizioni diverse dentro il suo partito e si sta battendo per la linea  che poi con fatica si affermerà con quello che fu definito “lo strappo” di Berlinguer. Il lungo periodo di attività parlamentare, però, fu anche l’occasione di una più intensa attività di Ulisse come scrittore di cui conta qui rammentare l’opera di maggiore impegno civile, quel  “Il Voltagabbana” che poneva a confronto le vite di due che avevano combattuto su opposti fronti nella guerra civile spagnola: lui stesso e Francesco Scotti, di cui era diventato amico nella resistenza, che sarà poi tra i costituenti, parlamentare, dirigente comunista, uomo di straordinaria finezza e generosità. Ne viene un ritratto d’epoca che aiutò molti giovani   capire cosa era stata la storia e i drammi di una generazione  e del proprio paese. Altri libri di quel periodo saranno più citati – innanzitutto la  biografia di Pavese che rese giustizia all’amico così tragicamente scomparso tanti anni prima – ma nessuno mi parve e mi pare e più memorabile del racconto della sua storia. Lajolo fin da ragazzo sognava di essere uno scrittore  e un poeta. E lo divenne, con una fatica che non ebbe niente da invidiare alla tenacia con cui le donne e gli uomini della sua amatissima terra coltivavano i loro campi. Ma dalla miseria di cui era stato testimone da ragazzo e dagli orrori della guerra egli trasse un’ansia di giustizia che lo accompagnerà per tutta la vita. Per questo scelse di stare  sino alla fine dalla parte degli ultimi e dei penultimi, come oggi si dice, di stare nella formazione politica che gli parve ed era, allora, quella degli operai, dei braccianti, dei mezzadri, dei contadini poveri , di tanta parte della cultura e di partecipare a dirigere quel partito. C’è uno stereotipo, con molti esempi letterarii, della figura di quelli che furono i dirigenti comunisti, caricaturale anche quando non è malevolo e, anzi, vuole essere elogiativo. Uomini tutti d’un pezzo, certo integri, ma chiusi in una trappola di idee antiquate, quasi discepoli di una fede in nome della quale pronti ad ogni doppiezza.  Ci fu anche questo, soprattutto nella clandestinità. Quando tutto è perduto, come spiega Gramsci,  la fede in una fatalità progressista sembra aiutare. Ma è lui a chiarire nella stessa pagina che incoraggiare  questa tendenza è insensato perchè spegne la ricerca critica, che è l’unica strada da percorrere. A questa scuola  che insegna il dubbio crebbero, con maggiore o minore diligenza, i dirigenti di quel partito. E Lajolo ha mostrato la sua forza e il suo ruolo dirigente proprio perché più visibilmente di altri ha rotto quel clichè, perché ha voluto adempiere al suo ruolo come uomo di politica e di cultura senza dimenticare la propria e l’altrui umanità. Ma su un punto quello stereotipo non sbagliava, ed è anche questo un motivo per ricordare  gli uomini migliori di quel tempo, ora che tanta cattiva politica mostra un inquinamento al limite del paradossale. La più scrupolosa integrità nell’etica pubblica, la più scrupolosa onestà era una premessa ancor prima che un dovere. Non era la dote di una parte sola, anche se il Pci si dimostrò più rigoroso di altri. Non mi farò lodatore del tempo passato, cosa sempre infeconda – e ridicola per un vecchio. Ma, certo, c’è da chiedersi come sia successo quel che vediamo, soprattutto da parte di chi ha voluto e ottenuto dal popolo le maggiori responsabilità. Nessuna vacua nostalgia e nessun pavido oblio , che servono entrambi a nascondere debolezze, lacune od errori . Ma la memoria di ciò che fu positivo è necessaria. Perciò è stato giusto ricordare Davide Lajolo, un caro compagno, un uomo vero. Di un esempio come il suo c’è bisogno,  più che mai.

pubblicato: 30 ottobre 2012 in Primo piano


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