Privatizzare l’Università? No grazie

11 Settembre 2008
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Antonio Sassu

I tagli alle risorse non risolvono mai i problemi, anzi li peggiorano se non sono accompagnati da provvedimenti con i quali si  vuol raggiungere gli obiettivi. Questo è tanto più vero quando le risorse che si tagliano sono già scarse, come risulta dai confronti con gli altri paesi e da passate esperienze. La fine che si fa è quella dell’asino di Buridano.
Tagliare le risorse all’Università (sia col fondo di funzionamento ordinario, sia col turn-over), come fa il dl.112, recentemente approvato dalla Camera, significa ridurre gli investimenti, e quindi il capitale di domani, da cui dipendono il prodotto e la produttività. Poiché sappiamo che la conoscenza è il capitale immateriale che determina essenzialmente la crescita economica di un paese, la riduzione delle risorse alla ricerca è un provvedimento incomprensibile e, comunque, che va esattamente in direzione opposta a quella che si vuole raggiungere.
La stessa cosa si può dire con la riduzione del turn-over al 20%, cioè, di fronte ad una uscita per pensionamento di 10 persone, soltanto due potranno essere assunte. In questo modo non solo sarà ridotta corrispondentemente la ricerca, anche la formazione sarà fortemente ridimensionata con grave danno al sistema economico e alla società intera. L’opinione pubblica tutta è bene che sappia che l’Università non potrà più garantire l’offerta formativa attuale, che peraltro, è oggi svolta in gran parte grazie all’impegno dei ricercatori (che, tuttavia, non hanno questo dovere). Se non si pone mano ad una riforma i danni si estenderanno presto alle imprese che non potranno avere i laureati e i tecnici di cui hanno bisogno. Anche in questo caso, l’obiettivo della crescita  non viene raggiunto. A meno che l’obiettivo non sia diverso da quello dichiarato. Per la verità, nel dl 112, benchè non ci sia una riforma, esiste un certo disegno per l’Università, più precisamente, la possibilità di una trasformazione in una fondazione privata. Su questa vale la pena di soffermarsi brevemente ed esprimere la nostra opinione.
Dal punto di vista della teoria economica la trasformazione dell’Università in fondazione privata non è ammissibile. La ricerca di base, quella prodotta prevalentemente dall’Università, dà luogo a esternalità di cui si appropriano il sistema economico e la società.  E’ per questo che la Costituzione ne prevede il finanziamento pubblico. I privati  avrebbero convenienza a mettere a disposizione della società i risultati della ricerca solo se essi non avessero rischi, cioè se lo Stato continuasse a erogare fondi pubblici.  Ciò non sarebbe eticamente corretto e, in ogni caso, la ricerca sarebbe orientata  verso qualche direzione. C’è una bella differenza fra il settore universitario, lontano dal mercato, immediatamente improduttivo dal punto vista commerciale, e altri settori, per esempio quello bancario, che danno profitti e i privati fanno a gara per entrarvi.
Inoltre, da un punto di vista empirico, le Università che operano in un territorio poco sviluppato, non hanno grandi occasioni per essere appetibili, soprattutto da parte delle imprese. Rimane l’Ente locale che ha i quattrini. Ma come finirebbe l’autonomia di cui gode l’Università e che la scienza reclama?
La realtà è che l’Università ha bisogno di risorse e di riforme. E’ tempo di idee. Sono tante le cose da fare, ad iniziare dall’amministrazione e dalla organizzazione. Ma non è questa la sede per entrare nel merito. Interessa solo mettere in evidenza un punto  senza il quale non ci può essere efficienza: il monitoraggio e la valutazione di ciò che fa l’Università sono irrinunciabili per un cambiamento. Le risorse ci devono essere, ma solo  chi le merita le deve avere.

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