Carlo Dore jr.
La proiezione di alcuni video con battute di Renzi su D’Alema, mandati in onda da Lilli Gruber ad 8 e 1/2 l’altra sera, presente il leader Massimo, hanno mostrato quale differenza di spessore esiste tra un attempato dirigente, per quanto discusso e discutibile, ed un giovane disinvolto che vuol governare l’Italia, mentre malgoverna Firenze. A fronte delle battute da stadio per ultras dell’homo ridens, D’Alema mette al centro le difficoltà del Paese e pone, con preoccupazione, l’esigenza di unire, non di dividere. Certo si può unire su una linea politica e su un programma diversi rispetto al passato, ma la linea e il programma bisogna averli. Gridare alla rottamazione, ripropone il vecchio ritornello ”togliti tu, che mi ci metto io”. Ma niente più. Basta questo per proporsi alla guida di un Paese? A sinistra ci basta mandare in pensione D’Alema? E con questa povertà di argomenti si fa avanzare il rinnovamento?
Ecco sul tema una riflessione di un giovane intellettuale, che, non solo per ragioni anagrafiche, non ha preoccupazioni di rottamazione.
“Se alle primarie vince Bersani, sono pronto a non ricandidarmi. Si può fare politica anche fuori dal Parlamento”. Massimo D’Alema affronta quello che dovrebbe essere il passo estremo del suo lunghissimo cursus honorum con la superba indifferenza di un leader che, nel bene e nel male, ha saputo interpretare un ruolo da protagonista di primo piano nella storia italiana degli ultimi vent’anni. Lo stile gelido e sferzante è lo stesso che incantò Togliatti e Berlinguer: le urla un po’ sguaiate dei fanatici della rottamazione svaniscono sotto il peso di parole scelte con la bilancia di precisione; gli slogan sparati sulle note di Jovanotti vengono tagliati a fette dal bisturi di un lucidissimo ragionamento politico.
“Se vince Bersani, non mi ricandido”. Esultano i supporter del “nuovo che avanza”, mentre i cronisti della stampa parlamentare affilano penne e tastiere per scrivere l’epitaffio del leader morente: D’Alema rottamato, D’Alema scaricato, D’Alema superato. Sono le parole che scandiscono il primo trionfo della new age firmata Renzi, sono le parole che celebrano la morte di un Capo.
Già, è stato un Capo, il leader Massimo: un capo discusso e discutibile, ma certamente un Capo. Un Capo in grado di prendere per mano la sinistra tramortita dal primo albore del berlusconismo nascente, di lanciare il progetto dell’Ulivo e di tracciare così la road map della lunga marcia dei progressisti verso il governo del Paese. Da quel momento in poi, la carriera del Massimo è stata un susseguirsi di ombre e luci: la Bicamerale e l’affrettata archiviazione del Governo Prodi; l’addio a Botteghe Oscure e l’insediamento a Palazzo Chigi; l’eterno dualismo con Veltroni e la coraggiosa denuncia delle violenze verificatesi a Genova nella “notte cilena” del 2001; i successi ottenuti alla Farnesina e la poco convinta adesione al PD veltroniano; l’appoggio incondizionato alla segreteria di Bersani e alla strategia volta alla costruzione del “nuovo centro-sinistra”.
Ombre e luci, nella carriera del Capo: terra di conquista per la ubris di Matteo il Rottamatore, abile a rilanciare ossessivamente il refrain del ricambio generazionale per coprire la mancanza di un progetto degno di tale nome. “Io porrò fine alla carriera parlamentare di D’Alema”; “la generazione di D’Alema ha già dato, ora basta”; “D’Alema è l’icona del fallimento di una classe dirigente, è ora di mandarli a casa”. Il tono infuocato – adatto più a un piccolo caudillo che al possibile candidato premier del centro-sinistra italiano – scalda gli animi di un popolo assetato di rinnovamento: rottamazione, rottamazione, rottamazione.
Veltroni scappa in Africa, con una valigia carica di bei libri e l’insopportabile fardello dei rimpianti conseguenti alle sistematiche sconfitte riportate lontano dalla luce del Campidoglio. E D’Alema? D’Alema no, D’Alema non cede. D’Alema ha vinto elezioni e stretto la mano a Clinton; D’Alema ha trasformato il PDS nel primo partito del Paese, prima di impantanarsi nelle sabbie mobili di quella maledetta Bicamerale. D’Alema è un Capo, che non accetta di spegnersi in esilio: se cade, cade combattendo. E allora: un rapido saluto allo scranno di Montecitorio, pieno sostegno alla candidatura di Bersani, e un ruolo da padre nobile della sinistra europea in caso di vittoria del segretario alle primarie.
“Se vince Bersani, non mi ricandido: si può fare politica anche fuori dal Parlamento”. E se vince Renzi? Massimo pesa di nuovo le parole con la bilancia di un sorriso diabolico: “Se vince Renzi, continuo a combattere. Non sono un cane morto”. Tra le risate dei cronisti della stampa parlamentare, ecco allora che un brivido freddo corre lungo la schiena dei fans del Rottamatore: D’Alema è ancora in campo, la giaculatoria del ricambio generazionale non lo ha ancora ucciso. E l’idea, in caso di vittoria del Sindaco che cena con i banchieri e che esalta Marchionne, di abbandonare il PD per dare vita a quel PSE italiano nel quale non ha mai smesso di credere potrebbe rivelarsi ben più di una tentazione. Insomma, forse è presto per gli epitaffi e per la celebrazione del trionfo della new age: forse è presto per usare le parole che in genere fanno da contorno alla morte di un Capo.
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