Mario Sai
Ieri è stata presentata a Firenze una ricerca della SPI CGIL della Toscana, in collaborazione con l’Università di Firenze, sulla democrazia e sulla partecipazione. Ecco una sintesi dell’interessante iniziativa apparsa su Il manifesto.
Viviamo una profonda crisi della democrazia segnata da un diffuso discredito delle istituzioni; dalla crescente separazione (e ostilità) tra cittadini e partiti; dall’indebolimento del ruolo dei sindacati; da una frammentazione della società segnata da localismi e corporativismi.
In questi anni si è prestata attenzione alle nuove forme di partecipazione, in larga misura animate dai “ceti medi riflessivi” capaci di promuovere reti di relazioni e iniziative di mobilitazione. Poco si è indagato, invece, sul processo di crisi crescente del complesso modello previsto dalla Costituzione all’articolo 3 fondato sull’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Per questo lo Spi-Cgil, insieme all’Ires Toscana e all’università di Firenze, ha promosso una ricerca su “Democrazia e Partecipazione nella crisi dei sistema politico”, presentata il 12 ottobre nell’aula magna del rettorato.
Le donne e gli uomini, che organizza lo Spi-Cgil, sono stati in larga misura protagonisti di quel momento di ampia e diffusa partecipazione democratica quale fu il ‘68 italiano, in particolare l’autunno caldo. Da quel movimento, e per moti anni, è venuta una intensa partecipazione dei lavoratori, in particolare degli operai, alla vita politica, nei partiti e nelle istituzioni, che è oggi venuta meno, anche nelle aree “rosse” del paese. Lo conferma la ricerca in Toscana. I partiti, a cominciare da quelli di sinistra, hanno un corpo attivo fatto da impiegati e gruppi dirigenti di amministratori. Quasi l’80% dei funzionari ha incarichi pubblici e però meno del 10% degli amministrati dichiara come ultima professione quella operaia. Si chiudono, quindi, anche gli spazi di mobilità sociale.
Le primarie, come nuovo canale di partecipazione, segnalano il mantenersi di questo processo di marginalizzazione. In quelle per scegliere il candidato sindaco a Firenze nel 2009 rispetto alle percentuali di forza lavoro censite nel Comune raddoppia la partecipazione di lavoratori autonomi e liberi professionisti; si mantiene stabile quella di impiegati, insegnanti e pensionati; crolla quella di operai, precari e disoccupati.
La scena politica in questi anni è stata, così, progressivamente occupata dai ceti medi (che costituiscono ormai la maggioranza della popolazione) e da soggetti politici, movimenti e culture non più collocabili politicamente («né di destra, né di sinistra») fortemente centrati sull’affermazione dell’individuo e sulla richiesta di nuovi diritti di libertà, ma diffidenti, se non ostili, verso le rivendicazioni dei lavoratori.
Con la crisi del fordismo e con l’estendersi e l’intensificarsi della competizione economica nel mercato mondiale, la partecipazione è diventata anche questione centrale per le imprese globali. Si è venuto affermando con il “toyotismo” un sistema organicistico di gestione dei rapporti di produzione che unisce predominanza dell’amministratore delegato e spirito aziendale.
Sono elementi che si ritrovano - pur senza farne una derivazione meccanicistica - nel paradigma che porta a partiti senza sostenitori. Anche in essi ci sono la predominanza del leader e della sua visione e la perdita di peso e di rilevanza politica degli iscritti sostituiti dall’elettorato (con i suoi movimenti individuati dai sondaggi) e dalle procedure elettorali dirette come le primarie.
Il modello partecipativo dei nuovi movimenti caratterizzato da orizzontalità, spirito comunitario, rappresentanza debole (non c’è delega, non c’è mandato) non risolve questi problemi.
La crisi della democrazia non si sana, infatti, al di fuori di un progetto che affronti anche le questioni della democrazia nei luoghi di lavoro e del ruolo dei lavoratori nella produzione e nella società. Ma per far questo occorre riconoscere centralità politica alla lotta operaia.
Lo scontro consumatosi alla Fiat, tra Sergio Marchionne e la Fiom, proprio questo è stato: il rifiuto operaio di un idea profondamente autoritaria e negatrice della democrazia nel lavoro come nella società.
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