Andrea Raggio
I recenti scandali scoppiati in diverse Regioni hanno riacceso il dibattito sullo stato e sulle prospettive del regionalismo nel nostro Paese. Ogni Regione fa storia a se, una gran parte di esse soffre di vizi gravi, altre invece, in particolare quelle del centro Italia, vantano importanti virtù. Per la Regione sarda il giudizio deve essere articolato. Nella prima fase della sua esistenza, infatti, ha indubbiamente contribuito, pur tra limiti e contradizioni, a far uscire Sardegna dal sottosviluppo, a cambiarne il volto modernizzandola. Nell’esperienza di quelli anni c’è la conferma che l’Autonomia non è fine a se stessa ma, come diceva Renzo Laconi, serve e vive se usata per promuovere un avvenire di progresso. Vive, cioè, se è legata a un’idea di sviluppo e se è intesa non solo come autogoverno ma come concorso Stato-Regione. La cultura della Rinascita è scaturita dall’intreccio tra questa visione dell’Autonomia e la politica.
Dalla seconda metà degli anni ’80, però, la cultura della Rinascita è stata progressivamente trascurata, sostituita da un regionalismo chiuso e da un rivendicazionismo senza progetto. Negli anni ’90, con il tracollo del sistema dei partiti, quella cultura è stata del tutto abbandonata. L’Autonomia, ridotta a sterile lagnanza, è stata travolta dalla ricerca di diversivi. La democrazia è stata mortificata per privilegiare i falsi miti - dal nuovismo al decisionismo, dalla stabilità politica coatta al presidenzialismo. L’esigenza di adeguare lo Statuto ai mutamenti intervenuti nella legislazione nazionale ed europea è stata mistificata nell’evocazione di una grande, grandissima riforma, tanto grande da non potersi fare, e nel centrodestra politico e mediatico serpeggiano da qualche tempo suggestioni indipendentistiche. Oggi la Sardegna vive una crisi drammatica anche perché in questi ultimi decenni non si è pensato al futuro. Fallimento dell’Autonomia? No, tradimento dell’Autonomia!
Come spiegare il collasso negli ultimi decenni dell’autonomismo sardo benché, a differenza di altre Regioni, abbia radici profonde nella storia e nella cultura dell’isola? Si spiega, a mio parere, innanzi tutto col venir meno dei partiti politici di massa che il sentimento e la rivendicazione autonomistici avevano alimentato: il partito sardo sin da prima del fascismo e quelli di sinistra e democristiano dopo. Si spiega, inoltre, con la crisi del regionalismo italiano favorita anch’essa dalla scomparsa dei grandi partiti ma originata dalla riforma zoppa del titolo V della Costituzione del 2001.
Corruzione e malcostume sono gli aspetti più appariscenti di questa crisi. Le Regioni, inoltre, hanno certamente deluso, nel complesso, riguardo al contributo alla crescita economica, alla lotta contro la crisi e al rafforzamento dell’Unità nazionale. Ed è vero che in esse, in misura minore o maggiore, “si è annidata una classe dirigente interstiziale, trasversale corrotta e corruttrice, un ceto politico improvvisato e parassitario”, come ha scritto recentemente Asor Rosa. Attenti, però a non scaricare su di esse tutti i guai del Paese e a non dimenticare che lo “spappolamento socio-economico del popolo italiano” non è fenomeno recente ed è stato alimentato prima dal craxismo, poi dal berlusconismo.
Ho accennato ai limiti della riforma del 2001. Essa, come sappiamo, fonda la Repubblica su Stato, Regioni, Province e Comuni e attribuisce, quindi, a queste Istituzioni pari dignità benché abbiano funzioni diverse e operino in ambiti territoriali diversi. Il nuovo assetto istituzionale richiedeva, però, e richiede la definizione di un rapporto tra le Istituzioni, non più gerarchico ma relazionale, cooperativo, sia nella fase ascendente sia in quella discendente. Questa è mancata, ogni Regione è andata per conto suo indebolendo la visione unitaria della politica nazionale. Sono mancati orientamenti condivisi per l’organizzazione interna delle istituzioni e sono mancati i controlli sui costi. Insomma, decentramento e rafforzamento della centralità politica nazionale dovevano e devono andare di pari passo. Non a caso nella legislazione comunitaria sono stati introdotti altri principi correlati a quello della pari dignità, quali la sussidiarietà e il partenariato, principi che nell’attuale Titolo V sono appena accennati. E’ stato, invece, introdotto il presidenzialismo che va nella direzione opposta perché contribuisce a verticalizzare e personalizzare la politica a tutto danno della vitalità democratica delle istituzioni. E’ vero, le competenze delle Regioni sono state con la riforma notevolmente ampliate, e può darsi che si debba procedere a una revisione. La ragione della crisi non sta, però, in un eccesso di autonomia. Semmai la maggiore autonomia, avvicinando maggiormente le istituzioni ai cittadini, serve a favorire un più efficace controllo dal basso. Se ciò non è avvenuto, è proprio a causa della frantumazione del sistema politico e della personalizzazione della politica, che ha portato all’aumento dei suoi costi favorendo la corruzione nella pubblica amministrazione. C’è chi fa politica per rubare ma c’è anche chi diventa complice per fare politica perché fare politica costa. Questa è, purtroppo, la realtà con la quale occorre fare i conti.
Il Governo fa bene, dunque, a intervenire con urgenza per stroncare la corruzione e il malcostume. E fa bene a predisporre la revisione del Tiolo V. Purché non si torni indietro, al vecchio centralismo, ma si vada decisamente avanti, perché un regionalismo rinnovato e forte serve al Paese e serve all’Europa. La quale sarà unita se sarà, come diceva Jacques Delors, comunità di popoli, di Stati e di regioni.
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