Evitare gli equivoci

9 Settembre 2008
6 Commenti


Francesco Cocco

Sono complessivamente d’accordo con l’articolo di Pietro Maurandi contro il  “monocratismo”  apparso nei giorni scorsi su Democraziaoggi.  Maurandi argomenta con acutezza e col senso di responsabilità che gli viene dalla sua elevata cultura istituzionale e dall’essere coordinatore di Sinistra Democratica, momento rilevante delle molteplici componenti che vogliono riallacciarsi alla storia del movimento operaio,
Pertanto avrei evitato d’intervenire se lo stesso articolo non contenesse un potenziale equivoco. Certamente estraneo al pensiero di Maurandi ma che resta nell’aria e da cui occorre liberarsi il più rapidamente possibile se non si vuol disperdere ogni residua speranza.  Cioè l’equivoco che il confronto-scontro oggi in Sardegna sia tra i sostenitori di un presidente forte e chi  si batte per un diverso rapporto tra  Legislativo ed  Esecutivo in un rinnovato ruolo dei partiti..
Certo lo scontro è anche questo, e non vi è dubbio che la soluzione sia da ricercare nella riattivazione di una sostanziale dialettica democratica tra partiti e  società civile. La scelta del candidato alla presidenza potrebbe essere, pertanto, il primo elementare passo da compiere. 
Ma qui si nasconde  l’equivoco potendo apparire come uno scontro tra due modelli di governo in cui il novello Ulisse (il presidente forte) sgomina i proci (gli oligarchi) che si sono impadroniti della casa dei sardi. E’ proprio questo l’equivoco che ha portato molti onesti democratici, legati da sempre al movimento dei lavoratori, a schierarsi  acriticamente dalla parte del falso Ulisse.   
Chi scrive queste righe non è di per sé  contrario ad un presidente “forte”.  In un certo momento storico, come l’attuale,  potrebbe anche essere necessario. In qualche modo  un presidente ed una giunta regionale “forti” dovrebbe essere l’obiettivo delle forze autonomistiche che vogliono uscire da lustri di ritardi ed inefficienza nella gestione  regionale.
Un tale formula istituzionale presuppone un assoluto rispetto della Legge. Il riferimento non è alle “leggi” che possono essere cambiate a libito del legislatore di turno (sia regionale che statale) ma essenzialmente  ai valori portanti della nostra Costituzione, soprattutto ai valori etici che essi incorporano.
Da qualche tempo il principio marxiano, per cui il governo è il comitato d’affari della  classe dominante, sembra aver perduto la sua valenza letterale  per acquisire  un significato persino più riduttivo, cioè un comitato autorizzato a gestire in proprio e per gli interessi personali  gli affari pubblici. Quale altro significato, ad esempio, può essere attribuito alla possibilità che la nuova legge statutaria attribuisce al  presidente della giunta ed agli assessori  di partecipare con loro società agli affari regionali!?
Oggi il confronto-scontro in atto (avviene spesso in modo sotterraneo senza  palesarsi in tutta la sua evidenza) è tra chi vuole salvare i principi fondanti la nostra democrazia ed i nostri istituti autonomistici e chi vuole affossarli  nel richiamo ad una pseudo efficienza  che per realizzarsi non esclude l’ arbitrio.
Allora evitiamo di far passare lo scontro come il confronto tra  un Esecutivo forte
ed un  Legislativo proteso a riacquistare il suo ruolo di garanzia democratica. Certo è anche questo, ma in ultima istanza finiremmo per rendere un favore sia a chi vuole il potere monocratico sia  a chi si batte per restaurare il potere degli “oligarchi” (alla lunga  non sono in contrasto tra loro).
La Sinistra nel suo complesso dovrebbe  capire sia che la posta in gioco  è il rispetto dei valori fondanti  la nostra stessa autonomia, sia che l’amministrazione della cosa pubblica non può generare commistione con la gestione di affari privati. Conseguentemente dovrebbe sganciarsi il più rapidamente possibile da un tale sistema di potere e riprendere a farsi progetto e rappresentanza generale del mondo del lavoro e per esso della società sarda nel suo complesso.

6 commenti

  • 1 GIORGIO COSSU
    17 Settembre 2008 - 01:11

    Non parlerei di equivoco ma di un dubbio diffuso che nasce dalla sfiducia nei partiti, dal pensare ad una soluzione meno peggio, anziché ad una ricerca ottimale. Nasce anche da carenza o inadeguatezza dell’analisi o da un relativo conformismo delle forme istituzionali, viste come date e non come strumento da adeguare allo sviluppo economico e sociale. Conformismo che si esprime nella sovranità del Consiglio, dell’Assemblea eletta, nel ruolo dei partiti, che vanno considerati ma spesso inadeguati ad offrire canali ed esprimere disegni complessivi.
    Che il presidenzialismo sia spesso una scorciatoia lo evidenzia il proliferare dei partiti del presidente o di gruppi di interesse privi di cultura e rappresentanza sociale, ridotta a espressione populistica e plebiscitaria. Che ci siano eccessi locali lo si trova nella Statutaria in cui il programma non può essere discusso, in cui il Presidente può nominare delegati.
    Non parlerei affatto che il problema si riduca all’osservanza delle norme, che sia nella patologia delle deviazioni dai fini istituzionali, peraltro più facili in presenza di forti poteri individuali, con carenza di bilanciamenti, garanzie e controlli.
    Resta da rispondere all’esigenza di rafforzare le decisioni dell’esecutivo senza confidare nella capacità dei partiti di elaborazione e rappresentanza, prendendo atto di una crisi strutturale dei canali di partecipazione politica.
    Che non si risolve certo rovesciando la “piramide della selezione democratica” affidando al presidente l’elaborazione del programma, la scelta della squadra e oggi il controllo del partito. Con ciò realizzando la negazione della democrazia per passare ad una oligarchia plebiscitaria basata non sulla selezione politica e consenso verificato, ma sulla notorietà o potere.
    La risposta al dubbio si trova evitando di confondere il momento di elaborazione e progetto che richiede partecipazione e competenze, dal momento esecutivo. La risposta sta quindi nel pluralismo istituzionale, con forme di autonomia e responsabilità, anche delle istituzioni non dotate di potere come l’Università ma essenziali per il contributo a processi di sviluppo. Risposta che abbiamo da tempo delineato con il movimento di riforma istituzionale QUALE STATUTO PER LO SVILUPPO, mirato a introdurre nello Statuto istituzioni autonome di proposta, di garanzia e controllo, e a regolare forme di intervento sui grandi problemi economici e sociali,

  • 2 Celso
    28 Luglio 2010 - 11:55

    Addio alla “Donna, Moglie e Mamma” Noretta Moro,
    morta a 94 anni la moglie dello statista. Era contraria alla strategia della fermezza. Il marito la invitò a disertare il suo funerale e lei lo fece. Addio Noretta, come il Presidente On. Aldo Moro chiamava affettuosamente sua moglie, Eleonora Chiavarelli. Che gli è sopravvissuta di 32 anni portandosi per intero nella tomba il dolore e la rabbia - sì, anche la rabbia - di quei 55 lunghissimi giorni del 1978. Tanti ne trascorsero, tra il 16 marzo e il 9 maggio di quell’anno, dal sequestro del marito al suo truce assassinio per mano delle brigate rosse. Delle quali mi ripugnano le maiuscole che ancora rivendicano alla loro organizzazione i superstiti capi e militanti, cioè macellai. Essi ancora vorrebbero spiegarci, da pentiti in cattedra o da ospiti di troppo disinvolti salotti televisivi, di avere sognato in buona fede la rivoluzione, o di avere voluto vendicare una Resistenza tradita dal solito Stato imperialista, autoritario, golpista, corrotto e via sproloquiando. In quei terribili 55 giorni la povera Noretta, che ci ha appena lasciato alla veneranda età di 94 anni, si battè come una leonessa per difendere il diritto alla vita del suo uomo e del padre dei suoi quattro figli, prima ancora del politico impietosamente abbandonato ai suoi aguzzini da molti di quelli che, nella suo Partito e altrove, ne avevano sino ad un momento prima inseguito i favori. O che, dimentichi o pentiti del no irrazionalmente e ingenerosamente opposto alla fine del 1971 alla sua candidatura alla Presidenza della Repubblica, alla scadenza del mandato di Giuseppe Saragat, ne davano per scontata alla fine di quel tragico anno l’elezione al Quirinale per succedere a Giovanni Leone. La signora Moro in quei giorni non ebbe riguardi per nessuno. Rifiutò ogni gesto d’ipocrisia. Da moglie fedele si fece esecutrice accanita di tutti i desideri, i consigli e gli appelli che, dal covo brigatista in cui era rinchiuso, il marito le lanciava nell’unico modo consentitogli dai suoi carcerieri: con le lettere, non tutte peraltro consegnate a destinazione. Noretta fu di una fedeltà straziante anche nella richiesta del marito di disertare, in polemica con le cosiddette autorità dello Stato, la solenne cerimonia funebre in suo onore. Eppure essa fu celebrata dal Papa in persona, Paolo VI. Che, dopo avere inutilmente pregato «in ginocchio» nei giorni precedenti i terroristi di salvare la vita al loro ostaggio, levò il suo grido di dolore e di delusione anche a Dio sotto le volte della Basilica romana di San Giovanni. Probabilmente non è stato di conforto alla vedova Moro, o ne ha addirittura aumentato la rabbia, e giustamente, assistere nei suoi ultimi, anzi ultimissimi anni di vita, a troppo tardive ammissioni di colpe o di errori da parte di alcuni dei fautori e degli attori della cosiddetta linea della fermezza. Che impedì durante la lunga e drammatica prigionia di Moro di sperimentare davvero tutte le strade possibili - e ve n’erano - per strappare vivo l’ostaggio ai suoi aguzzini, anche inserendosi nei loro sempre più evidenti o ravvisabili contrasti. L’On. Presidente Aldo Moro: era uno statista vero, non di quelli finti che da sinistra si propongono di tanto in tanto alle nostre cronache con ipocriti richiami proprio a lui, il marito della Noretta che si è appena ricongiunta al suo uomo, nell’eternità di quella misteriosa “luce” di cui Moro le scrisse nella sua ultima lettera, quando i suoi aguzzini gli comunicarono che era tutto finito, anche il vergognoso intreccio d’inganni in cui lo avevano avvolto dopo averlo sequestrato tra il sangue della scorta sterminata in via Fani, a poche centinaia di metri da casa. Noretta Moro Donna, Madre e Sposa è simile alle molte Donne Italiane che con fede e sacrificio portano avanti con dignità le nostre famiglie. Grazie Noretta e a Voi Donne Italiane, non attendo l’otto marzo per ricordarvi, ma siete per noi tutti esempio da seguire ogni giorno nel vostro silenzio e nella sofferenza. Ecco uno dei magici segreti che fa grande il nostro Paese.

    Celso Vassalini

  • 3 Celso
    20 Agosto 2010 - 09:28

    “C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua con furberia”. Queste parole non le ha dette un leader dell’antipolitica, ma don Luigi Sturzo cinquant’anni fa (Il Popolo, 16 dicembre 1956). Oggi, il fossato tra società civile e istituzioni democratiche, tra i cittadini e quella che ormai è indicata con il nome spregevole di casta si è allargato smisuratamente. La politica è ammalata. Dunque, per prepararsi a fare politica, la prima cosa da fare è pensare di guarirla. Come? La politica non s’impara sui banchi. O meglio: lo studio ci vuole, ma non basta. A nuotare s’impara nuotando. A fare politica s’impara impegnandosi. Ciò significa prepararsi contemporaneamente su due piani: su quello dell’intelligenza critica e su quello dell’azione profetica. Bisogna chiedersi anzitutto perché la politica è ammalata. La ragione di fondo è che essa ha perduto la sua tensione ideale, ha smarrito il suo fondamento etico. Ora, il fine della politica è il bene comune, cioè la politica è l’arte di unire tutti nel rispetto delle diversità. Ma, come riuscirvi se prima non si colma il deficit etico delle nostre democrazie? Per restituire un’anima alla politica, occorre ripartire dalle fondamenta. Una delle grandi ambizioni della democrazia moderna era che si sarebbe alimentata autonomamente e spontaneamente da se stessa. Questa aspirazione - commenta Norberto Bobbio - non si è realizzata: la storia ha dimostrato che la democrazia non è in grado di autoalimentarsi, non è autosufficiente. Mons Luciano Monari nostro Vescovo va oltre e afferma che il sistema democratico non può conservare le proprie risorse morali senza l’aiuto della coscienza religiosa. In altre parole, lo Stato democratico, da un lato deve evitare di trasformare la sua laicità in una sorta di religione (laicismo), dall’altro senza divenire Stato etico o confessionale, non può fare a meno del contributo che la coscienza religiosa dà alla formazione e al consolidamento del tessuto della società. La storia recente conferma il contributo rilevante che la religione dà alla difesa della democrazia: basti pensare alla parte da essa avuta nell’abbattimento del Muro di Berlino, nella sconfitta delle dittature in America Latina o nella lotta alla mafia che questo Governo sta con successo concretizzando. “Solo Stati autenticamente laici in cui la laicità non sia una religione alternativa di Stato ma uno spazio di libera espressione garantita a tutte le confessioni religiose, potranno favorire la convivenza e al tempo stesso l’apporto delle religioni all’arricchimento del tessuto etico della società. Si delinea un suggestivo intreccio: la laicità dello Stato garantisce la libera espressione e convivenza delle religioni, ma le libere espressioni della esperienza religiosa garantiscono il necessario apporto etico alla democrazia e la stessa laicità” Dunque, la realizzazione di una buona politica dipende pure dalla maturità con cui i cristiani si pongono nei confronti della democrazia, rispettosi della sua laicità. Oggi è possibile realizzare questo incontro tra cristiani e laici, senza tuttavia nascondersi le difficoltà di un dialogo spesso strumentale e i rischi del relativismo etico. Infatti, democrazia laica e cristianesimo hanno in comune fondamentali esigenze etiche, a cominciare dai valori di libertà, uguaglianza e universalità dei diritti umani, di dignità della persona. A tal punto, da poter affermare che questi valori, nati con l’illuminismo, sono in realtà di origine cristiana. Anzi - puntualizza Benedetto XVI - l’illuminismo (e quindi lo spirito della democrazia) ha contribuito a rimettere in luce la razionalità originaria della religione del logos, e ha contribuito a liberare il cristianesimo da condizionamenti storici e politici che avevano finito col trasformarlo in religione di Stato. Tuttavia, mentre si fa chiarezza sul piano dell’intelligenza critica, bisogna esercitarsi nel confronto tra fede e ragione sul piano storico per sanare la frattura tra etica e politica, che oggi si è allargata smisuratamente. Il dialogo è lo strumento privilegiato dell’incontro tra la ragione e la fede, tra credenti e non credenti; non solo a livello teorico, ma a livello operativo e politico. L’arte del dialogo è tanto più necessaria oggi, quando problemi gravissimi - come quelli cosiddetti eticamente sensibili, insieme a quelli della pace, della salvaguardia del creato, della convivenza multietnica e multiculturale - esigono l’incontro e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro razza, la loro cultura, la loro religione. La strada del dialogo è l’unica per andare oltre le contrapposizioni, per fare unità nella diversità, mantenendo ciascuno le proprie radici e la propria storia, ma superandosi in una visione superiore del bene comune. Il dialogo, però, è un’arte. È indispensabile, quindi, che imparino a esercitarla quanti si preparano a fare politica in un sistema democratico. In conclusione, c’è bisogno di cittadini che siano cristiani adulti e maturi, che realizzino nella propria vita la sintesi tra spiritualità e professionalità, capaci cioè di tradurre in carità politica la luce e la forza che vengono dalla fede. In questa sintesi sta il segreto della formazione dei fedeli laici all’impegno politico. Benedetto XVI riassume così: “Missione dei fedeli laici è di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità. […] la carità deve animare l’intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come carità sociale”. Allora con il Segretario del Cittadino Saulo Maffezzoni di Alleanza di Centro, abbiamo realizzato con il Circolo Culturale “SIR THOMAS MORE”, iniziative-formative per risvegliare la passione politica alla coscienza critica dell’azione. Poi il nostro impegno è stato di condividere con gli amici della Lega Nord, un confronto politico a tutto campo sulla progettazione politico – culturale, formativa e sulle scelte amministrative Cittadine.
    Da Brescia, un’addio al Presidente Francesco Cossiga, Padre nobile della galleria della prima Repubblica.
    Celso Vassalini

  • 4 Celso
    17 Settembre 2010 - 16:35

    : Adro, Lega e dintorni: il Sole delle Alpi? - Archivio: ADRO
    Carissimo direttore, mi perdoni l’invadenza. Be i 150 di storia sono rispettati dal Partito della Lega o no! Il simbolo è molto antico, il nome decisamente recente. Come si evince da una rapida ricerca sintetizzata con chiarezza dall’enciclopedia online wikipedia, il fiore stilizzato a sei petali racchiuso in un cerchio - oggi noto perlopiù come Sole delle Alpi - è un arcaico emblema eurasiatico, che è stato, nel tempo e nello spazio, differentemente chiamato anche rosa celtica, fiore a sei petali, rosa dei pastori e, in età medievale, anche rosa carolingia. Evocativo del sole e del suo potere vivifico, è sempre stato inteso come stemma bene augurante e inciso su costruzioni, abitazioni, portali e chiese, su pietra, legno o metallo. Diffuso dall’India alla Scandinavia e assunto, con piccole variazioni formali, come simbolo di varie comunità di tutto il contesto euroasiatico, in Italia fa la sua comparsa già dalla fine del VI secolo a. C. Ne restano antiche reminiscenze disseminate lungo tutta la penisola: sull’urna etrusca di Civitella Paganico in Toscana; in Puglia sulle cosiddette Stele daunie, monumenti “di uomini e donne” funerari in pietra calcarea proveniente dal Gargano, in uso presso l’antica civiltà dei Dauni; in Val Camonica; nell’arte celtica; nell’iconografia longobarda; nell’area di influenza celtoligure; sul pavimento del santuario di Saronno; nei rosoni absidali della chiesa dei santi Giovanni e Paolo a Venezia; a Roma nella basilica di san Clemente. Lo stesso simbolo è diffuso anche in Campania, in particolare sull’isola di Ischia, dove è una tipica decorazione degli architravi degli antichi edifici del centro storico di Forio. Compare anche, privo della circonferenza di contorno, nella parte superiore dello stemma della provincia di Lecco. E lo si può ritrovare pure su banchi, cartelli, vetrate, cestini e zerbini del nuovo polo scolastico della cittadina di Adro, qui rigorosamente in uno sgargiante colore verde. Tra queste più recenti comparse e le più antiche, il fiore a sei petali inscritto in un cerchio è stato inserito nel proprio simbolo dalla Lega Nord, che lo ha proposto anche come eventuale bandiera della Padania, scegliendo naturalmente per lo stemma il colore verde, rappresentativo del partito. E battezzando definitivamente il simbolo con il nome di Sole delle Alpi, termine coniato negli anni Novanta da alcuni intellettuali. Con il particolare contributo del Prof. Gianfranco Miglio. È precisamente da quegli anni che l’immagine in contesto italiano è imprescindibilmente legata al partito della Lega Nord. Emblema, soprattutto, della sua caricaturale geniale rispetto della storia e non come dicono gli amici della sinistra senza più cortine di guerra fredda e quindi senza futuro, di simboli, storia, tradizione. Dell’affannoso quanto goffo bisogno di forgiare una mitologia “l’ulivo” tirata per i capelli e una memoria raffazzonata ad arte, nel tentativo di fornire una pezza d’appoggio ad affermazioni, prese di posizione e proclami politici e no che di legittimazioni storiche, Con buona pace dei detrattori storici amici di Six..!! Cari orfani dalle varie cortine di guerra fredda “muro di Berlino”, il sole delle Alpi è un simbolo che appartiene alla storia locale e non è un insulto all’intelligenza dei liberi cittadini. Il Sole delle Alpi non spegne la scuola di Adro e la sua comunità, contribuisce a portare al centro del dibattito culturale la scuola e le sue problematiche». Quindi chi manifesta è uno sciocco e stolto culturalmente. Mi piacerebbe che tutti coloro che hanno polemizzato con il sindaco di Adro, lo facessero per coerenza anche le molte volte in cui sono simboli della sinistra ad entrare in classe, spiegatemi dove ciò sia successo e perchè il rispetto dei principi, sanciti dalla Costituzione i cosi detti intellettuali, dalla loro storia “sporca di sangue”, si permettono di fare la morale alle salde tradizioni che hanno fatto grande il nostro Paese. Voglio ringraziare i benefattori, quindi conti alla mano allo Stato è costato molto meno e soprattutto i 10mesi la realizzazione, dove da altre parti costi triplicati e tempi bibblici..! Quindi come si rispetti e si usa nella storia, come ci sono nomi dei benefattori sui banchi nelle chiese e negli Ospedali ecc.. Dove sta il problema! Con serenità di riflessione storica, auguro sereno lavoro a Lei Sig. Sindaco e agli educatori della scuola, culla e forgiatrice del nostro patrimonio umano delle sue radici e delle nuove leve dal mondo povero. E un sincero grazie alle famiglie che hanno donato parte del loro patrimonio al bene della collettività. Grazie. Celso Vassalini. Brescia 16 settembre 2010.

  • 5 Celso Vassalini
    4 Novembre 2011 - 16:47

    Segnale di pericolo per gli amici della Lega. Non stupisce quindi che le confuse “chiacchiere” del Cavaliere sull’euro abbiano suscitato un vespaio di polemiche che significano poco o nulla, dato che si basano appunto solo su “chiacchiere”. Peraltro, il Cavaliere da un pezzo ha abbandonato qualsiasi velleità di fare una “politica autonoma” - ammesso e non concesso che gli accordi con Putin e Gheddafi avessero anche per lui un “senso geopolitico” - ed è disposto a tradire tutto e tutti, pur di difendere i propri interessi, dacché da bravo italiano “tiene famiglia” e pure parecchia “roba”. Il sasso però è stato scagliato nello stagno, anche se nel modo meno opportuno e nella maniera più sciocca possibile. Comunque sia, per rendersi conto di che “pasta” siano fatti i “sinistri” basta leggere le dichiarazioni sconclusionate di Prodi o quelle ridicole della Finocchiaro, secondo cui l’euro avrebbe salvato l’Italia. In particolare, quest’ultima non solo non ha capito nulla di quel che ha affermato il Cavaliere (il che dipende sia dal disordine mentale del nostro Presidente del Consiglio, sia da quello che contraddistingue i membri della “sottocasta” cui appartiene la Finocchiaro, ovvera quella dei camerieri dei “mercati”), ma addirittura ignora (o se ne infischia del fatto) che il 50% delle famiglie italiane detiene appena il 10% della ricchezza nazionale. Un 50% cioè che vive solo grazie ai redditi che guadagna lavorando, non avendo altra ricchezza se non la propria casa (e alcune famiglie non hanno nemmeno questa proprietà). E ancora più grave è che per gli italiani (dopo che hanno visto, con l’introduzione dell’euro, il proprio potere d’acquisto dimezzarsi) e per i loro figli si prospetta un futuro ancora peggiore: non solo crisi economica, ma! In sostanza, è l’internazionalizzazione del debito, più che il debito il problema - come prova anche il fatto che il Giappone, pur avendo un debito pubblico del 240% , non rischia alcun default, il debito essendo nelle mani dei giapponesi - di modo che, se l’Italia dovesse “crollare”, l’effetto sarebbe disastroso non solo per Eurolandia, ma per l’intero Occidente, Usa compresi. L’Italia non ha solo una ricchezza immobiliare di notevolissima entità, come alcuni hanno ricordato in questi giorni, ma pure una ricchezza mobiliare di prim’ordine: oltre 3000 miliardi di euro in assets finanziari, che equivale a quasi il doppio del nostro debito pubblico, ed è oltre dieci volte superiore al fabbisogno annuo del ministero del Tesoro, per rinnovare i titoli in scadenza. Questo i “mercati” lo sanno, ma sanno pure - ecco l’intoppo! - che l’Italia è un Paese “ingessato”, “sotto ricatto” di lobbies nazionali e straniere, incapace di riforme di struttura, coraggiose e di ampia portata, dalla PA al mondo della ricerca e della cultura. Inoltre - ma è “decisivo” - i “mercati” sanno pure che l’Italia non ha nessun “piano strategico”, in un qualsivoglia settore chiave, che il governo è (ad esser “buoni”) formato perlopiù da inetti e/o pusillanimi e che l’opposizione è perfino peggiore del governo, anche se ciò può apparire impossibile. D’altra parte, avere stracciato il Trattato di Bengasi è stato, per così dire, lo squillo di tromba per incitare i “mercati” ( e credo sia chiaro “chi” sono i “mercati”) alla carica contro il nostro Paese. E’ giunto allora il momento non solo di comprare “a prezzi di mercato” l’unico “pungiglione strategico” rimasto al nostro Paese (Eni, Enel, Finmeccanica e poco altro), ma soprattutto, ora che ad Ovest la “torta” diventa sempre più piccola e la lotta tra (sub)dominanti sempre più dura, di impedire che qualcuno possa, non tanto voler uscire dall’euro (rebus sic stantibus, per un Paese come il nostro basato su una economia di trasformazione, senza materie prime e privo di potenza militare, equivarrebbe probabilmente ad un suicidio), quanto piuttosto voler cambiare le regole del gioco, non solo economico, ma anche (di necessità) geopolitico. Vero che sembra un cambiamento quasi impossibile, ma il prossimo anno non sarebbe così difficile come oggi. Ecco perché occorre fare presto e dare tutto il potere alla Bce, dopo aver diviso l’Europa tra “nordici virtuosi” e “piigs”, per garantirsi pure che nessun “contraccolpo” possa indurre la Germania a crescere politicamente, seguendo le orme della cosiddetta “Ostpolitik”. Certo l’obiezione è prevedibile: ai “mercati” interessano gli affari e i “capitalisti” competono tra di loro. Questo però nessuno lo nega, né si tratta di fare un’analisi dei “fatti economici” in quanto tali (dacché di essi si occupa la “scienza” dell’economia). E sotto questo profilo è indubbio che le parole del Cavaliere assomigliano ad un cerino acceso in una polveriera, sebbene il Prof. Monti probabilmente sbagli a ritenere che un “guitto” (e voltagabbana) possa far saltare in aria gli “Stati Uniti d’Europa” (ma nessuno sa che cosa ci possa essere dietro l’angolo). E’ anche innegabile però che questa Europa sta all’Europa come il gruppo di potere che La Grassa denomina GF&ID (ossia “grande industria e finanza decotta”) e le varie “sottocaste” (politici, gazzettieri etc.) stanno all’Italia. Il che dovrebbe essere sufficiente per comprendere che, se il Cavaliere non può essere la soluzione del problema, non è nemmeno il problema. Del resto, se l”Italia è già di fatto “commissariata”, anche a causa dell’analfabetismo politico dell’opposizione, ben più pericoloso è quello che i “commissari” vogliono fare per favorire la vera “casta”, di cui quella italiana è solo una parte. La parte che conta meno. Questo i “mercati” lo sanno, ma sanno pure - ecco l’intoppo! - che l’Italia è un Paese “ingessato”, “sotto ricatto” di lobbies nazionali e straniere, incapace di riforme di struttura, coraggiose e di ampia portata, dalla PA al mondo della ricerca e della cultura. Speriamo che la maggioranza si rafforzi con l’U.D.C. e che le parole del Papa, non restino inascoltate per l’incontro G20. Comunque sono ottimista: il nostro Paese e i nostri cittadini hanno in questi vent’anni dato all’Europa e aiuto agli equilibri mondiali! Oggi possiamo solo risalire. E menomale che abbiamo un grande vecchio l’On. Avv. Presidente del nostro Grande Paese Giorgio Napolitano. Buon 4 novembre 2011 e auguri o mia Italia.
    Celso Vassalini.

  • 6 Celso Vassalini
    7 Novembre 2011 - 16:54

    Segnale di pericolo per gli amici della Lega. Non stupisce quindi che le confuse “chiacchiere” del Cavaliere sull’euro abbiano suscitato un vespaio di polemiche che significano poco o nulla, dato che si basano appunto solo su “chiacchiere”. Peraltro, il Cavaliere da un pezzo ha abbandonato qualsiasi velleità di fare una “politica autonoma” - ammesso e non concesso che gli accordi con Putin e Gheddafi avessero anche per lui un “senso geopolitico” - ed è disposto a tradire tutto e tutti, pur di difendere i propri interessi, dacché da bravo italiano “tiene famiglia” e pure parecchia “roba”. Il sasso però è stato scagliato nello stagno, anche se nel modo meno opportuno e nella maniera più sciocca possibile. Comunque sia, per rendersi conto di che “pasta” siano fatti i “sinistri” basta leggere le dichiarazioni sconclusionate di Prodi o quelle ridicole della Finocchiaro, secondo cui l’euro avrebbe salvato l’Italia. In particolare, quest’ultima non solo non ha capito nulla di quel che ha affermato il Cavaliere (il che dipende sia dal disordine mentale del nostro Presidente del Consiglio, sia da quello che contraddistingue i membri della “sottocasta” cui appartiene la Finocchiaro, ovvera quella dei camerieri dei “mercati”), ma addirittura ignora (o se ne infischia del fatto) che il 50% delle famiglie italiane detiene appena il 10% della ricchezza nazionale. Un 50% cioè che vive solo grazie ai redditi che guadagna lavorando, non avendo altra ricchezza se non la propria casa (e alcune famiglie non hanno nemmeno questa proprietà). E ancora più grave è che per gli italiani (dopo che hanno visto, con l’introduzione dell’euro, il proprio potere d’acquisto dimezzarsi) e per i loro figli si prospetta un futuro ancora peggiore: non solo crisi economica, ma! In sostanza, è l’internazionalizzazione del debito, più che il debito il problema - come prova anche il fatto che il Giappone, pur avendo un debito pubblico del 240% , non rischia alcun default, il debito essendo nelle mani dei giapponesi - di modo che, se l’Italia dovesse “crollare”, l’effetto sarebbe disastroso non solo per Eurolandia, ma per l’intero Occidente, Usa compresi. L’Italia non ha solo una ricchezza immobiliare di notevolissima entità, come alcuni hanno ricordato in questi giorni, ma pure una ricchezza mobiliare di prim’ordine: oltre 3000 miliardi di euro in assets finanziari, che equivale a quasi il doppio del nostro debito pubblico, ed è oltre dieci volte superiore al fabbisogno annuo del ministero del Tesoro, per rinnovare i titoli in scadenza. Questo i “mercati” lo sanno, ma sanno pure - ecco l’intoppo! - che l’Italia è un Paese “ingessato”, “sotto ricatto” di lobbies nazionali e straniere, incapace di riforme di struttura, coraggiose e di ampia portata, dalla PA al mondo della ricerca e della cultura. Inoltre - ma è “decisivo” - i “mercati” sanno pure che l’Italia non ha nessun “piano strategico”, in un qualsivoglia settore chiave, che il governo è (ad esser “buoni”) formato perlopiù da inetti e/o pusillanimi e che l’opposizione è perfino peggiore del governo, anche se ciò può apparire impossibile. D’altra parte, avere stracciato il Trattato di Bengasi è stato, per così dire, lo squillo di tromba per incitare i “mercati” ( e credo sia chiaro “chi” sono i “mercati”) alla carica contro il nostro Paese. E’ giunto allora il momento non solo di comprare “a prezzi di mercato” l’unico “pungiglione strategico” rimasto al nostro Paese (Eni, Enel, Finmeccanica e poco altro), ma soprattutto, ora che ad Ovest la “torta” diventa sempre più piccola e la lotta tra (sub)dominanti sempre più dura, di impedire che qualcuno possa, non tanto voler uscire dall’euro (rebus sic stantibus, per un Paese come il nostro basato su una economia di trasformazione, senza materie prime e privo di potenza militare, equivarrebbe probabilmente ad un suicidio), quanto piuttosto voler cambiare le regole del gioco, non solo economico, ma anche (di necessità) geopolitico. Vero che sembra un cambiamento quasi impossibile, ma il prossimo anno non sarebbe così difficile come oggi. Ecco perché occorre fare presto e dare tutto il potere alla Bce, dopo aver diviso l’Europa tra “nordici virtuosi” e “piigs”, per garantirsi pure che nessun “contraccolpo” possa indurre la Germania a crescere politicamente, seguendo le orme della cosiddetta “Ostpolitik”. Certo l’obiezione è prevedibile: ai “mercati” interessano gli affari e i “capitalisti” competono tra di loro. Questo però nessuno lo nega, né si tratta di fare un’analisi dei “fatti economici” in quanto tali (dacché di essi si occupa la “scienza” dell’economia). E sotto questo profilo è indubbio che le parole del Cavaliere assomigliano ad un cerino acceso in una polveriera, sebbene il Prof. Monti probabilmente sbagli a ritenere che un “guitto” (e voltagabbana) possa far saltare in aria gli “Stati Uniti d’Europa” (ma nessuno sa che cosa ci possa essere dietro l’angolo). E’ anche innegabile però che questa Europa sta all’Europa come il gruppo di potere che La Grassa denomina GF&ID (ossia “grande industria e finanza decotta”) e le varie “sottocaste” (politici, gazzettieri etc.) stanno all’Italia. Il che dovrebbe essere sufficiente per comprendere che, se il Cavaliere non può essere la soluzione del problema, non è nemmeno il problema. Del resto, se l”Italia è già di fatto “commissariata”, anche a causa dell’analfabetismo politico dell’opposizione, ben più pericoloso è quello che i “commissari” vogliono fare per favorire la vera “casta”, di cui quella italiana è solo una parte. La parte che conta meno. Questo i “mercati” lo sanno, ma sanno pure - ecco l’intoppo! - che l’Italia è un Paese “ingessato”, “sotto ricatto” di lobbies nazionali e straniere, incapace di riforme di struttura, coraggiose e di ampia portata, dalla PA al mondo della ricerca e della cultura. Speriamo che la maggioranza si rafforzi con l’U.D.C. e che le parole del Papa, non restino inascoltate per l’incontro G20. Comunque sono ottimista: il nostro Paese e i nostri cittadini hanno in questi vent’anni dato all’Europa e aiuto agli equilibri mondiali! Oggi possiamo solo risalire. E menomale che abbiamo un grande vecchio, l’On. Avv. Presidente del nostro Grande Paese Giorgio Napolitano. Buon 4 novembre 2011 e auguri o mia Italia.
    Celso Vassalini.

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