Disarmati perché senza orizzonte

18 Settembre 2012
1 Commento


 Andrea Raggio

Di fronte al dramma dei lavoratori dell’Alcoa e delle altre aziende sarde a rischio di chiusura, ha scritto Andrea Pubusa, ci sentiamo disarmati, non riusciamo ad andare oltre la generica solidarietà. Ha ragione. Siamo disarmati perché non abbiamo più un orizzonte. Non c’è un’idea di sviluppo della Sardegna e non c’è una politica industriale nazionale, capaci di saldare l’emergenza alla prospettiva e di dare forza e respiro, unificandole, alle singole vertenze territoriali. Ecco perché la politica regionale è ridotta a mero rivendicazionismo e non c è diffusa partecipazione. Non s’intravedono alternative, perciò se queste aziende chiudono, crolla il mondo, ed è disperazione.
Cappellacci tuona contro il Governo e il Consiglio regionale contro Cappellacci. Un consigliere minaccia di sospendere il giuramento alla Costituzione, un altro propone di sottoporre a verifica la lealtà dello Stato, un altro ancora invoca una forte sovranità della Sardegna nei confronti dello Stato.  Parole che sono segno di confusione e di impotenza. I lavoratori, dal canto loro, sono costretti ad adottare forme di lotta sempre più clamorose e sulla torre salgono anche i sindacalisti. I media contribuiscono a inasprire l’esasperazione dando all’informazione un taglio sensazionalistico: “Siamo disposti a tutto”, titola la prima pagina l’Unione sarda. L’intento è chiaro, forzare al massimo sul Governo nella convinzione che sia solo un problema di buona volontà. E’ questa la strada?
E’ vero, la disperazione degli operai rischia di manifestarsi anche in forme estreme di protesta. Ma ostentare disperazione basta? Siamo sicuri che sia la sola prova di forza possibile e non, invece, una manifestazione d’impotenza? Peraltro, ha  ragione Tore Cherchi, non c’è solo disperazione. Ci sono idee, piani, progetti e iniziative, nel Sulcis come nel sassarese e a Ottana, ma mancano prospettive a lungo termine della politica industriale ed energetica. E mancano politiche sociali e programmi infrastrutturali tali da consentire di saldare l’emergenza con la prospettiva di rilancio e riconversione dei settori  industriali in crisi, questione alla quale hanno fatto riferimento i professori Sabattini e Bona. 
Ed è venuta a mancare da troppo tempo, aggiungo, la cultura della Rinascita, quella cultura politica scaturita negli anni ’50 dalla conquista dell’Autonomia e imperniata su un’idea di sviluppo, sulla solidarietà nazionale e sull’autogoverno. In passato, nei momenti di crisi mettevamo in campo (noi partiti, forze sociali, intellettuali democratici, Regione) una proposta di rilancio dello sviluppo e su di essa suscitavamo la partecipazione popolare. Quando l’industrializzazione forzata provocò la congestione delle aree urbane, lo spopolamento delle zone interne e profonde lacerazione sociali accompagnate dalla recrudescenza della tradizionale criminalità, abbiamo fatto di questa, negli anni ’70, il punto di aggancio dell’iniziativa politica. Abbiamo promosso l’indagine parlamentare sul fenomeno e l’abbiamo condotta sul campo con centinaia di assemblee popolari e di dibattiti nei consigli comunali, l’abbiamo trasformata, grazie alla collaborazione tra Consiglio regionale e Parlamento, in revisione critica della prima fase della Rinascita e nella messa a punto di una linea di correzione dello sviluppo distorto, accompagnandola con un disegno concreto di trasformazione della Regione da Ente in Ordinamento di autonomie e di partecipazione. E quando la crisi dell’apparato industriale ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti, abbiamo sollevato, negli anni ’80, la questione di una svolta radicale negli indirizzi delle Partecipazioni statali per passare dalle cattedrali nel deserto alla promozione del risanamento e della verticalizzazione industriale e della diversificazione delle attività produttive nella direzione dello sviluppo dell’industria manifatturiera e della piccola impresa. Tutto bene? Niente affatto, anche allora c’erano grandi difficoltà e un forte disagio sociale ma c’era meno disperazione perché la politica e la partecipazione sociale tenevano il campo. Ma dopo gli sconvolgimenti, nel mondo e in Italia, provocati dalla caduta del Muro e da Tangentopoli, invece che adeguare la cultura della Rinascita ai cambiamenti intervenuti, siamo progressivamente scivolati nella gretta chiusura regionalistica – l’Autonomia come fortezza – e nel rivendicazionismo senza progetto. E siamo andati alla caccia di diversivi che hanno via via indebolito la democrazia: l’efficientismo, il decisionismo, la stabilità politica coatta, il presidenzialismo. Anche il nuovismo - togliti tu che mi ci metto io - è cosa d’allora, oggi rispolverata. Leggo che la cosiddetta  “Consulta rivoluzionaria dell’indipendentismo sardo” ha deciso che “la politica sarda, tutta intera, deve tornare a casa”, il Consiglio regionale deve essere svuotato e che alle prossime regionali “la Consulta rivoluzionaria sarà presente”. Più chiari di così!
Voglio dire, in conclusione, che bisogna tradurre la disperazione in maggiore iniziativa e forza politica a sostegno della lotta per garantire, nel modo migliore possibile, l’occupazione dei lavoratori e nello stesso tempo, e con lo stesso impegno, rianimare la cultura della Rinascita per ricostruire un orizzonte di sviluppo.
 

1 commento

  • 1 carla gabriella camba
    19 Settembre 2012 - 13:51

    Renato Soru “disse ai minatori l’amara verità sul fatto che la miniera, così come era stata concepita fino a quel momento, era solo un parcheggio per occupati, che si doveva trasformare quel territorio da porzione estrattiva a Silicon Valley locale dove si potesse produrre in loco alta tecnologia pulita piuttosto che materiale non pregiato, sulfureo, costoso e assolutamente non competitivo. Disse agli industriali che il loro compito non era di concedere lavoricchio ai trogloditi locali, ma di inserirsi in una politica del territorio che tenesse conto delle sue peculiarità.” Gli altri i maggiorenti del PD cosa hanno proposto per la RIinascita della Sardegna?

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