Sulcis, come far uscire i lavoratori dal tunnel

11 Settembre 2012
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Gianfranco Sabattini e Lorenzo Bona

Nel dramma economico-sociale del Sulcis (come di altre aree dell’Isola e del Paese) generalmente si fa dipendere la sorte dei lavoratori dall’individuazione a breve di fattibili progetti di rilancio delle produzioni, mentre è chiaro a tutti che la ripresa o la riconversione di settori industriali in crisi richiede solitamente tempi più lunghi. Si tratta, dunque, di disgiungere la sorte immediata dei lavoratori dalle riconversioni produttive per l’evidente non corrispondenza dei tempi di soluzione delle due questioni. In questo articolo Sabattini e Bona, economisti dell’Ateneo cagliaritano, indicano una via semplice e generale per far fronte allo spettro dei licenziamenti nei settori in crisi, già praticata con successo in altri Paesi europei.


Le drammatiche vicende dei minatori sardi della Carbosulcis sono oggetto in questi giorni di molti commenti. Tra questi merita attenzione l’intervento di Riccardo Gallo pubblicato di recente sul “Foglio”. Gallo, introducendo il tema della scelta tra mercato e assistenzialismo in settori strategici ai fini del loro rilancio, osserva che la seconda opzione è in contrasto con le politiche dalla Comunità europea a difesa della concorrenza. L’assistenzialismo anziché recuperare l’economicità dei settori “aiutati” tramite la riduzione dei costi di produzione trasferirebbe allo Stato la differenza rispetto al prezzo di mercato, con conseguenti alterazioni delle cosiddette regole del gioco.
A complicare la situazione, per quanto riguarda il carbone del Sulcis, sarebbe anche la natura di questo materiale fossile, “ad alto tenore di zolfo e a basso potere calorifero”. Un materiale, quindi, di scarsa qualità, del quale anche una sua minima valorizzazione comporterebbe la ricerca dei finanziamenti necessari per realizzarla; di quest’opzione però non vengono indicate, sia pure ipoteticamente, le modalità utili a reperire le risorse necessarie. Ricordando questa prospettiva di valorizzazione di una “risorsa povera”, com’è in realtà il carbone del Sulcis, Gallo giustamente si chiede cosa hanno fatto negli anni passati le classi politiche nazionali e locali davanti a un problema arcinoto e con radici così lontane nel tempo da aver costituito spesso l’occasione per la messa a punto di progetti faraonici che si sono poi volatilizzati nell’arco di una campagna elettorale.
Gallo inoltre aggiunge alcune osservazioni a proposito della Carbosulcis, antico carrozzone erede della Carbosarda, da sempre punto di riferimento per iniziative di volta in volta proposte e spesso incapaci, quando attuate, di risolvere definitivamente un antico problema di un’importante area della Sardegna. Una prima osservazione, pienamente condivisibile, è che non è possibile abbandonare al loro destino i lavoratori e le loro famiglie che si trovano nella situazione critica attuale. Una seconda osservazione contiene invece una duplice proposta per il futuro dell’area mineraria sarda: chiusura della miniera e conseguente assegnazione di un “accompagnamento sociale” ai suoi occupati; politiche di sostegno per la infrastrutturazione dell’area e per i centri di ricerca già presenti per la produzione di “know how” da destinare al mercato.
La duplice proposta di Gallo è però poco chiara rispetto alle modalità di attuazione circa il sostegno da erogare agli attuali disoccupati. In particolare, è poco chiaro che cosa si debba intendere per “accompagnamento sociale”: un sussidio/salario temporaneo o permanente? Da erogare ai lavoratori in difficoltà o a tutti i residenti dell’area in crisi?
Rispetto a queste domande è auspicabile che l’“accompagnamento” proposto da Gallo sia da intendersi in termini di reddito minimo garantito, in attesa che anche in Italia sia finalmente accolto questo strumento di politica pubblica presente in varie forme in molti Paesi europei, secondo una misura almeno uguale alla “soglia di povertà”. Non affrontare la soluzione del problema del Sulcis secondo questa prospettiva di breve periodo, nell’attesa che sia legittimata un’ipotesi più generale di crescita e sviluppo dell’area sulcitana da integrare nel piano predisposto dal governo per il rilancio dell’economia nazionale e meridionale, significherebbe voler chiudere gli occhi davanti alla crisi del modello di produzione fordista. Una crisi che si è tradotta in un cambiamento delle natura della disoccupazione, da congiunturale in strutturale.
Fronteggiare le relative situazioni di emergenza sociale, che purtroppo si ripetono sempre più spesso, è un imperativo economico e politico di prima grandezza. In questo senso, è giusto non lasciare ai propri destini i lavoratori che perdono il lavoro per ragioni a loro non riconducibili. Ed è pure giusto lasciarci alle spalle avventure assistenzialistiche a sostegno di settori inefficienti e non più meritori d’essere considerati fonte di accettabili opportunità occupazionali, al di fuori del supporto di tecnologie avanzate per sostituire il lavoro dell’uomo oltremodo usurante con quello delle macchine.
Ma i rimedi da offrire a chi si trova nei tunnel della disperazione e povertà o a chi rischia di entrarvi per via delle disfunzioni interne al funzionamento del complessivo sistema economico non vanno ricercati in interventi straordinari decisi di volta in volta e discrezionalmente. Semmai vanno ricercati aumentando l’inclusione sociale attraverso le moderne prospettive di riforma del welfare delineate dalle cosiddette teorie dello sviluppo dell’uomo e favorendo la laboriosità e creatività di tutti i cittadini con l’istituzionalizzazione di un salario minimo garantito a tutti i residenti delle aree colpiti da crisi irreversibili.
 

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