Carlo Dore jr.
In un editoriale dei giorni scorsi Raimondo Cubeddu, su “L’Unione Sarda”, ha proposto una serie di spunti di riflessione sul “rapporto tra politica e giustizia”, di nuovo al centro del dibattito politico a seguito della polemica innescata dagli interventi su Repubblica di Gustavo Zagrebelsky ed Eugenio Scalfari.
L’articolo, infatti, rileva come, a seguito della scelta del Capo dello Stato di sollevare un conflitto di attribuzioni nanti la Corte Costituzionale – conflitto cagionato dalla presunta lesione, da parte della Procura di Palermo, delle guarentigie previste dall’art. 90 della Costituzione nonché dalla violazione del disposto dell’art. 7 c. 4 della legge 219 del 1989 -, “lobbies ed organi di stampa stanno scatenando una battaglia politica di preoccupanti dimensioni. Quasi a dimostrare che quel cattivo rapporto non era da attribuire esclusivamente a Berlusconi e alle finalità che venivano attribuite ai suoi riforma dell’ordinamento giudiziario”. Osserva inoltre l’autore che “anche settori della sinistra si rendono conto che quella relazione conflittuale è insana e che va risolta restituendo ad un governo democratico poteri atti ad evitare che si trasformi in un elemento di costante destabilizzazione politica”.
L’attuale Presidente della Repubblica e l’ex Presidente del Consiglio sarebbero quindi entrambi vittime di questo “insano conflitto”tra poteri dello Stato: conflitto alimentato dal consueto manipolo di toghe militanti ed intellettuali imbevuti di moralismo reazionario. Costruzione ardita, che, evidentemente, si presta a più di una considerazione critica.
Sollevando il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale – atto dalle conseguenze giuridiche estreme, come ha magistralmente illustrato Gustavo Zagrebelsky nel suo intervento su “Repubblica” del 17 agosto - , il Capo dello Stato ha investito la Consulta del compito di risolvere una questione tecnicamente controversa. Premesse infatti l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni (art. 90 Cost.) e l’impossibilità per la Magistratura di sottoporre ad intercettazione le utenze telefoniche a lui riconducibili (art. 7 c. 4 della legge 219 del 1989), le conversazioni tra una persona indagata ed intercettata ed il Presidente (c.d. intercettazioni indirette) possono essere utilizzate nel procedimento a carico della persona sottoposta ad intercettazione?
Si tratta di una questione vivamente dibattuta tra i principali costituzionalisti italiani: di una questione che la Corte deve dirimere secondo lo strictum ius, e che non vale né a mettere in discussione la legittimazione della Procura di Palermo a condurre le indagini sulle stragi del 1992-93, né tanto meno ad assecondare le ragioni di quanti (si veda in tal senso la recente intervista all’on. Sacconi) auspicano una riforma delle intercettazioni per “mettere un freno”al presunto “strapotere dei PM”.
Queste semplici considerazioni bastano di per sé sole ad escludere la possibilità di individuare un punto di contatto tra la condotta del Presidente della Repubblica e quella osservata nel recente passato dall’ex Presidente del Consiglio . Mentre il Capo dello Stato ha segnalato la possibile presenza di una lacuna nell’ordinamento (riferita appunto al problema delle intercettazioni indirette delle sue conversazioni), l’ex premier non solo ha sistematicamente messo in dubbio la legittimazione e l’imparzialità dei magistrati impegnati a vario titolo nei procedimenti a suo carico, ma ha anche tentato di sottrarsi a tali procedimenti sia attraverso l’imposizione di una serie di leggi del tutto contrastanti con l’interesse generale (faccio riferimento, in particolare, alla c.d. legge Cirielli sull’abbreviazione dei termini di prescrizione), sia attraverso il tentativo (sempre vanificato dalle pronunce della Consulta) di forzare a proprio vantaggio il dettato costituzionale (immediato è il richiamo al Lodo Alfano ed alla legge sull’inappellabilità, da parte del PM, delle sentenze di assoluzione).
Tutto ciò premesso, non può, a mio avviso, contestarsi alle forze di centro-sinistra l’errore di avere ravvisato solo ora la necessità di contrastare il “populismo giuridico” di magistrati ed intellettuali scomodi attraverso un intervento legislativo che restituisca prestigio alla politica. Se di errori si può parlare, l’errore commesso nel recente passato da alcuni esponenti dell’area democratica consiste proprio nella scelta di non individuare nella riaffermazione della questione morale e nella tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati impegnati in inchieste politicamente sensibili il punto qualificante della propria azione di governo. Un errore che le forze progressiste dovranno evitare di commettere in futuro, per contrastare quel generalizzato clima di sfiducia verso la politica che fa da sfondo al triste declino della Seconda Repubblica.
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