Rossana Rossanda -Il Manifesto
La diagnosi dello stato della politica in Italia è semplice: metà dei cittadini si è astenuta alle elezioni europee, ai ballottaggi delle amministrative, e al referendum molto di più. Il quadro è simile in tutta Europa. I socialisti hanno perduto dovunque, il parlamento europeo è largamente di centro destra. Le sinistre radicali sono più deboli del previsto, quelle italiane sono scomparse di scena. In Italia è assente una socialdemocrazia, indebolita altrove. Dovunque spunta o si rafforza una destra estrema.
Il segnale è opposto a quello venuto dagli Stati uniti, e infatti in Europa per nulla raccolto.
In Italia Berlusconi non supera, come sperava, il 35% ed è meno forte di un anno fa. La Lega va al 10, sono inseparabili. Fini gioca un gioco suo. Se questo porterà a una crisi di governo, sarà prodotta e gestita dalla maggioranza (e appoggiata dal Vaticano, via Casini). La minoranza è divisa fra un Ad in calo, diviso e confuso e una sinistra radicale in briciole. Neanche i Verdi sembrano fuori dalla crisi, malgrado che Obama negli Usa e molti in Europa vedano nell’ecologia un investimento necessario e un valore-rifugio. L’opzione bipartitica che era stata comune a Berlusconi e Veltroni è
caduta.
1.Se su questo quadro sintetico siamo d’accordo, resta da vedere se si condivide il perché di questo esito. A mio avviso per l’Italia esso va cercato lontano, nell’arco della mia generazione, che d’altronde non è più che un momento storico. Infatti il disastro di oggi appare più grande in quanto la sinistra del dopoguerra è stata più forte che altrove. Mai stata maggioranza, come ha osservato Norberto Bobbio, anche perché era rappresentata, in un paese tenuto fuori dal crogiuolo degli anni venti e trenta in Europa, da comunisti e socialisti e un forte sindacato, che hanno schiacciato, fra se
stessi e la D.C., una interessante terza forza (Giustizia e Libertà).
Questa forma presa dalla sinistra, dalla resistenza al 1956, è alquanto diversa dalle altre in occidente.
I socialisti e i comunisti, liberi dalle contese degli anni trenta coperte dal fascismo, sono ancora uniti e i comunisti appaiono salvo alla Dc e al “partito americano”- abbastanza svincolati dall’Urss (concepita peraltro anch’essa non come un pericolo incombente). Così dopo il 1956 e la divisione con il Ps, il Pci supera gradualmente, in quantità e qualità di ascolto, il già più forte Pcf, facendo propria una larga frangia d’opinione. E’ difficile separare da esso la messa a fondamento del senso
comune repubblicano, costituzionale, antifascista; e questo, perlopiù, colorato di un ombra di concezione classista (vivissima nella resistenza anche in Giustizia e Libertà e poi nel cattolicesimo di Dossetti e della corrente di Base della Dc).
2.Il quadro muta negli anni sessanta-settanta, in corrispondenza alla grande modernizzazione del paese nella composizione sociale, produttiva e culturale. Il Ps ha mutato fronte, ne Pci si apre un dibattito, il sindacato cresce e muta la sua struttura di base, un’area di sinistra radicale comincia a apparire separata dai comunisti, che però crescono di peso.
Il corto circuito è determinato dal movimento del 1968. Diversamente dal resto d’Europa esso si verifica in presenza di un forte partito comunista che non lo attacca frontalmente, ma del quale esso chiude l’egemonia. Il 1968 ha in Italia una coda lunga un decennio. Come in nessuna parte altrove,
ha modificato diversi parametri della cultura, ha prodotto la densa politicizzazione dei gruppi extraparlamentari diversa da quella del movimento comunista, ha indotto un vasto associazionismo che si vive come controcultura e contropotere.
È una seconda e tumultuosa modernizzazione del paese che si colloca a sinistra del Pci ma non riduce la sua forza nell’opinione di massa, anzi.
I comunisti arriveranno a un terzo dei voti, il sindacato è forte, l’intellettualità è come non mai politicizzata e diffusa. Il «movimento» critica Pci e Cgil ma trascina l’appartenenza al sindacato (il più modificato) e il voto al Pci; le elezioni del 1975 danno alla sinistra tutte le grandi città.
Questa tendenza non sembra intaccata dal compromesso storico (1973), poco percepito a livello di opinione. È come se soltanto l’astensione comunista del 1976 verso il governo Andreotti ne rivelasse il vero senso. È in quell’estate che si spezza ogni speranza delle minoranze di movimento, il
movimento stesso si divide e una piccola parte di esso (non occorrono molti per sparare) va davvero sulle armi (omicidio di Coco a Genova).
Tuttavia l’elettorato sosterrà sempre maggiormente il Pci fino alla morte di Berlinguer, il quale peraltro fa, negli ultimi anni, e isolato dal resto del gruppo dirigente, una virata a sinistra.
3. Tardiva. Sul piano mondiale il 1968 non è sfuggito alle classi dominanti, che si riattrezzano. Il Pci non ha compreso il senso dell’abolizione del gold standard, né quello della crisi dell’energia del 1954 e tanto meno i mutamenti strutturali del capitale e delle tecnologie in atto e la ricomposizione delle
strategie che ne conseguono (Trilaterale).
Né ha capito realmente le soggettività che si dibattono contro di esso. Non intende neppure, se non in un breve sussulto concernente le donne, la rivoluzione passiva che si compie fin dall’inizio fra generazioni nei rapporti familiari e d’autorità. Non capisce la porta ideale dell’anticomunismo del movimento.
Del tutto estraneo gli è il 1977 italiano, assai reattivo ai mutamenti del lavoro ma errato nella previsione, come non aveva capito prima il formarsi dell’estremismo delle Brigate rosse e di Prima Linea, di cui non vede altro che il pericolo che costituiscono per il suo accreditamento come forza di
governo. Berlinguer pratica duramente l’emergenza inseguendo Moro, anch’egli incerto e isolato nella Dc.
Negli anni ottanta il salto tecnologico è avvenuto, specie nell’informazione e in quel che ne deriva per il movimento dei capitali e per la finanziarizzazione, ma i comunisti leggono solo in termini di politica antisovietica la restaurazione di Thatcher e Reagan, sottovalutano la stagnazione dell’Urss di
Breznev, non capiscono il tentativo di Andropov, esitano su Solidarnosc in Polonia come avevano esitato su Praga; la berlingueriana «fine della forza propulsiva» del 1917 arriva quando la scomposizione del Pcus è ormai avanzata e tutti i rapporti con il dissenso ancora di sinistra dell’est sono stati mancati. Così fino a Gorbaciov.
Con Craxi e poi con la morte di Berlinguer è già andata molto avanti, anche se non in termini elettorali, la crisi del Pci e comincia quella della Cgil. La fine della prima Repubblica è soprattutto la fine loro.
4. Negli anni ottanta il movimento del ‘68 si chiude del tutto, abbattuto assieme alle Brigate Rosse, con le quali pur non aveva avuto a che fare, il radicalismo e anche l’estremismo essendo una cosa, passare alle armi un’altra.
Si forma e struttura, di nuovo, soltanto il filone del secondo femminismo.
Con il 1989 la crisi del Pci semplicemente si compie, la «svolta» induce un altro partito, idealmente e organizzativamente, e si fa senza una rivolta di base. Rifondazione nasce come un ritorno a ieri e si dibatterà senza pace sul come diventare una chiave per il domani; né il Pci né Rc fanno un bilancio storico del comunismo e della loro stessa funzione in Italia. Quella che era stata l’intera area della
sinistra resta, fra disincanti e fibrillazione, mentre recipitano socialisti e comunisti.
Bruscamente va in pezzi quel che era parso per venti anni senso comune, il rifiuto del «sistema». Le sinistre si restringono in piccoli gruppi, alcune si affinano, non riusciranno o forse non vorranno più unificarsi.
Da allora una perpetua discontinuità produce spezzoni di movimento puntuali e perlopiù ncomunicanti. Il sussulto di quello enorme per la pace e poi del sindacato al Circo Massimo non daranno luogo a una ripresa costante, anche per il senso di impotenza che deriva dalla nullità del loro
risultato.
5. L’89 è tutto gestito dalla ripresa del capitale e nella sua forma prekeynesiana. L’ideologia dei Fukujama e degli Huntington - fallimento ab aeterno del socialismo e inevitabile scontro di civiltà - colpisce a fondo la sinistra storica, che patisce i fallimenti dei socialismi reali, non li affronta e si arrende; le socialdemocrazie altrove e gli ex comunisti in Italia praticano con zelo e pentimento le
politiche liberiste.
Ma anche le culture diffuse delle sinistre radicali galleggiano a fatica. Molte percezioni del ‘68 si rovesciano su se stesse nel risentimento verso quel che il movimento operaio, già venerato, non ha compreso: ha sacrificato la persona alla collettività, l’individuo al partito, il conflitto dei sessi
all’«economicismo», la terra allo sviluppo devastatore. Ha sottovalutato la dimensione del sacro, dell’etnia, dei cicli. Ha glorificato la ragione contro l’emozione, l’occidente contro le diversità, l’avvenire rispetto al presente. Il postmoderno ha dato una mano. Questa è la tendenza maggioritaria.Restano, ma molto minoritari, alcuni movimenti. La trasmigrazione verso l’ecologia è la più forte.
La precipitazione della politica nella corruzione e nella bassezza e l’emersione di Berlusconi non trovano freno. L’area già comunista e socialista non tenta neppure un riallineamento verso la socialdemocrazia. La spoliticizzazione segue alla delusione; si vive nell’oggi perché è dannata la
memoria del passato e non si sa che cosa volere per il futuro. Incertezza, risentimento, paura.
Protezionismo degli ancora occupati davanti a una crisi che non intendono. Mai, per parafrasare Guicciardini, la gente italiana è stata così infelice e così cattiva.
6. Se «sinistra» ha avuto un senso nel XIX e XX secolo era libertà, eguaglianza, fraternità, declinate nell’eredità della rivoluzione francese. La prima nell’idea di democrazia, la seconda da Marx, la terza (diversamente dal senso che aveva avuto nel 1789) come solidarietà fra gli umani. Esse percorreranno fra le tragedie tutto il XX secolo. Il loro rifiuto non significa che sia avvenuta una rideclinazione. Significa il ripiegamento dalla libertà all’individualismo e il volgere il bisogno di appartenenza verso categorie metastoriche (religioni, nazionalismi, etnie e altre presunte origini).
Significa negare l’eguaglianza di diritti (e non solo né tanto nell’interpretazione che ne dà parte del movimento delle donne) e fare dell’affermazione del più forte il principio e motore della società.
Significa affogare la fraternità nell’odio e nella paura dell’altro e del diverso. Berlusconi e Bossi sono inimmaginabili negli anni ‘60.
Questa è oggi la metà dell’Italia che parla.L’egemonia è passata a destra. La sua affermazione segnala una rivoluzione antropologica prima che politica. La degenerazione della politica ne è concausa e conseguenza. Almeno se politica significa, non marxianamente ma arendtianamente,
«preoccuparsi del mondo».
Di questo rozzo tentar di delineare il quadro vorrei discutere.
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