Giuseppe Locorotondo
Per conoscere i protagonisti al tempo della Congiura di Palabanda, pubblichiamo uno stralcio della voce CARLO FELICE di Savoia, re di Sardegna - Treccani.it - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977) di Giusepe Locorotondo.
Data la fonte, la trattazione è molto controllata. Emerge comunque il profilo di un personaggio reazionario e sanguinario, in contrasto con la vulgata isolana che lo vuole principe illuminato, tanto da meritare un monumeto al centro di Cagliari e l’intitolazione della maggiore arteria della Sardegna.
…Minacciato all’interno dal pericolo della rivoluzione (nel 1794 furono scoperte due congiure giacobine) e compromesso sul piano estero dal disastroso trattato di Valenciennes (23 maggio 1794), il Piemonte fu infine travolto (aprile 1796) dall’armata napoleonica. Costretto a firmare l’armistizio di Cherasco (28 apr. 1796) e poi la pace di Parigi (15 maggio) sanzionante la cessione alla Francia di Nizza e Savoia e di alcune fortezze (Carlo Felice per conseguenza prese il titolo di marchese di Susa), Vittorio Amedeo III non resse alla sventura.
Nell’ottobre 1796 gli successe Carlo Emanuele IV. I rapporti di C. F. con lui, mai stati propriamente cordiali, non migliorarono. A mano a mano che la situazione politica peggiorava, cresceva il dispetto dei componenti della “fradlanza” nei confronti del fratello sovrano che li teneva all’oscuro dei principali affari di Stato. C. F. (la prima parte del Journal si interrompe proprio nel marzo del 1798) assisté angosciato e irritato agli eventi culminati nella forzata rinuncia di Carlo Emanuele IV all’esercizio dell’autorità regia sopra gli Stati sardi di terraferma. Col re e con tutta la famiglia reale la sera del 9 dic. 1798 lasciò Torino e all’alba del 3 marzo 1799, sempre al seguito della corte, sbarcò a Cagliari.
La Sardegna recava i segni della grave crisi degli anni 1793-96 durante i quali, al tentativo autonomistico e antiassolutistico della “fazione dominante cagliaritana” capeggiata dagli Stamenti, era seguito il tentativo secessionistico, contro la tirannia della capitale, da parte di Sassari, roccaforte della reazione nonché del lealismo monarchico, e poi la violenta ribellione (luglio 1795) dei vassalli e delle plebi derelitte contro le insostenibili angherie feudali. Nel biennio 1797-98 aveva trionfato la reazione terroristica (imperniata peraltro, più che sul potere centrale, sulle iniziative locali e individuali) ma erano rimaste intatte tutte le cause delle agitazioni e delle sedizioni.
Il sovrano e la famiglia reale furono accolti con giubilo dalla popolazione, e fatti segno a manifestazioni di generosità da parte delle classi dominanti. Risultò rinsaldata la fedeltà dinastica, e favorito un certo processo di pacificazione sociale. In realtà, i provvedimenti firmati da Carlo Emanuele IV, che distribuì ben presto le principali cariche ai fratelli (a C. F., ripreso il titolo di duca del Genevese, toccò il comando della fanteria, e dal 15 agosto al 3 settembre, in sostituzione del duca d’Aosta, la carica di governatore di Cagliari e della Gallura), non modificarono la situazione ed anzi si iscrissero nella logica della reazione in atto. Di qui scontento e malumore, e quella recrudescenza di repressione che la Sardegna conobbe proprio alla vigilia della partenza dei sovrani alla volta del Piemonte “liberato” dal russo A. V. Suvorov e poi “precluso” dall’austriaco M. F. B. Melas. è a questo punto che C. F. (il duca d’Aosta era passato anch’egli sul continente, ed il duca del Monferrato era morto il 2 settembre) ebbe la carica di viceré di Sardegna (18 sett. 1799).
Privo non soltanto di esperienza politica ed amministrativa, ma anche di vera attrazione per l’esercizio del governo, C. F. assunse l’incarico come un dovere non derogabile, ma volle esercitarlo come un diritto non delegabile né condizionabile. Sostenuto, per convinzione o per calcolo, dalla feudalità isolana, egli rintuzzò l’autonomia della burocrazia e perfino della magistratura, che volle docili strumenti della sua autorità, e dei collaboratori, che volle umili esecutori della sua volontà, e rivendicò pienezza di potere perfino nei confronti della corte.
La burocrazia (di cui frenò la piemontesizzazione) fornì sostegno all’azione di C. F.; la magistratura invece, più che gelosa di indipendenza, si mostrò incapace di affrancarsi dalla soggezione ai vincoli e alle pressioni ambientali. Tra i collaboratori a lui più graditi vi furono comunque alcuni magistrati del Consiglio di Stato, del tribunale della R. Udienza a Cagliari e della R. Governazione a Sassari. Con due sardi poi (Giacomo Pes di Villamarina e soprattutto Stefano Manca di Thiesi dei duchi dell’Asinara, poi marchese di Villahermosa, intransigenti difensori dello status quo e fervidi sostenitori di casa Savoia in Sardegna) creò un rapporto non solo di collaborazione, ma di amicizia e di confidenza.
Diversi furono i rapporti con il già celebre conte Giuseppe de Maistre, nominato nel settembre 1799 reggente della R. Cancelleria, carica che, unita a quella di presidente, della R. Udienza e di giudice supremo dell’Ammiragliato, ne faceva una specie di primo ministro del viceré. Pur atteso con impazienza, il Maistre giunse a Cagliari, senza fretta e senza entusiamo, soltanto il 12 gennaio 1800. Si dimostrò subito un pessimo collaboratore, e nei tre anni di permanenza nell’isola fu sempre in aspro conflitto con il viceré. Con vero sollievo C. F. riuscì, nel febbraio 1803, a liberarsi del suo insopportabile ministro, destinato ministro a Pietroburgo in sostituzione del conte A. Vallesa.
Difficili anche i rapporti con Carlo Emanuele IV e la corte rimasta sul continente. Le cose migliorarono con l’abdicazione del sovrano e con il nuovo re Vittorio Emanuele I (4 giugno 1802), anche se non mancarono del tutto le ombre.
In verità, se erano gravi le preoccupazioni del viceré, non meno gravi erano quelle della corte sarda, costretta, in penosissime condizioni economico-finanziarie, scarsamente lenite dai pietosi o interessati soccorsi russi e inglesi, a sfruttare l’ospitalità, concessa da sovrani o principi amici ed a seguire impotente la sorte del Piemonte, annesso nell’aprile 1801 alla Repubblica francese.
Della complessa crisi sarda C. F. mostrò subito di aver colto chiaramente l’aspetto esteriore e formale dell’attentato all’autorità assoluta rappresentato dagli attacchi ai valori e alla ideologia dominante, e dalla minaccia alla stabilità dell’ordine sociale. Il suo impegno massimo e prioritario fu subito volto a riannodare fermamente nelle sue mani (come farà dopo il ‘21) tutte le fila del potere, e a perseguire con implacabile determinazione ogni tentativo di ribellione all’autorità, alle leggi, all’ordine costituito. Instaurando un vero e proprio regime militare, creò una magistratura speciale, la Vice-Regia Delegazione per l’istruttoria dei processi politici, ed il primo ad essere celebrato fu quello a carico del “capopolo” V. Sulis, colpevole di nient’altro (altre accuse non risultarono provate) che di essersi sostituito all’inetto viceré nel domare la rivolta, mortificando però, così, l’autorità costituita, un reato mai abbastanza punito per C. F., che giudicò “mite” la condanna a vent’anni di carcere. Nel perseguire i “rei di stato” legittimò l’adozione di procedure militari ed ogni arbitrio di polizia, dallo spionaggio alla censura epistolare e alle taglie sugli indiziati (lettere del 16 e 20 ag. 1800, 23 ott. 1802).
Ossessionato dal pericolo dei giacobini, nel biennnio 1800-1801 scoprì e schiacciò alcune loro macchinazioni. La più grave prese il nome dal frate Gerolamo Podda, che aveva fatto della sua cella la sede di una specie di club giacobino, e che, morto in carcere prima della sentenza, fu processato con una procedura che ancora nel 1807 il Maistre definiva “monstrueuse” (cfr. Lemmi).
Nel giugno 1802 ci fu un tentativo rivoluzionario dei fuorusciti sardi in Gallura, preparata alla rivolta dal notaio Cilocco. I ribelli proclamarono la Repubblica sarda, catturarono un bastimento postale e si impadronirono delle torri di Longosardo, Vignola e Isola Rossa. La repressione spietata accentuò la feroce severità dell’immagine pubblica di C. F., ma - come osservava il Pontieri - fece sorgere la convinzione che nell’isola “spirasse un’aura per nulla benigna alle avventure”.
Il suo legalitarismo aveva una duplice matrice: una personale istanza di giustizia e la logica della ragione di Stato, che gli facevano esigere che “les barons et les vassals” apprendessero “également a respecter les ordres du Roi”. A quella stessa duplice matrice si ispirò anche il cosiddetto riformismo feliciano.
A prescindere infatti dai vincoli De conservandis iuribus statutis ac privilegiis posti dal trattato di trasferimento dell’isola ai Savoia e dalla forza della feudalità isolana (che vantava la protezione dellAustria e della Spagna, ma che era anche il più valido sostegno della monarchia), C. F. non pensò mai di variare il sistema, ma soltanto di eliminarne gli abusi, in un quadro paternalistico. Invitò gli Stamenti ad apportare al sistema tributario modifiche volte ad esentare “i lavoratori, segnatamente quelli della terra” (Pontieri); convocati nel 1500 e nel 1804 per votare contribuzioni volontarie, in questa seconda convocazione deliberarono di ripartire il fissato donativo straordinario di 400.000 lire soltanto fra i ceti possidenti, secondo i desideri del viceré.
Il 12 ag. 1800 questi aveva emanato un “pregone” per regolare in senso favorevole ai vassalli le controversie relative ai cosiddetti diritti dominicali. Purtroppo, con la connivenza della magistratura locale, gli abusi continuavano. Di qui la rivolta antifeudale scoppiata nella villa di Thiesi contro il duca dell’Asinara che disattendeva le disposizioni del “pregone”. Il viceré riconobbe la responsabilità del duca (fu privato della giurisdizione feudale e confinato ad Alghero), ma non perdonò agli artefici della rivolta, la quale, pur essendo in difesa di una legge, racchiudeva “l’esprit de rébellion”. La ferocia di C. F. fu tale (”ce pauvre village fut livré - scrisse egli stesso - au plus cruel pillage”) da suscitare la formale riprovazione della corte.
Il problema feudale restava grave e difficile. I pesi gravavano sulle categorie legate alla terra, la quale sembrava “essersi fatta più avara a causa di arretrati sistemi di sfruttamento, della mancanza di capitali, della diminuita esportazione dei prodotti” (Pontieri). Allo sviluppo economico ed agricolo dell’isola furono indirizzate due notevoli iniziative del viceré: l’editto, emanato poi il 6 dic. 1806, per favorire la coltivazione degli ulivi (assorbito poi nelle leggi feliciane del 1827, e la realizzazione a Cagliari, nel luglio 1804, del vecchio progetto di una Società agraria ed economica. Patrocinata dal marchese di Villahermosa e presieduta da L. Baille, la Società suscitò molte speranze, e anche molte opposizioni, ma non conseguì risultati apprezzabili (cfr. Sole, pp. 26 s.). C. F. creò anche un ufficio per l’amministrazione delle miniere, dei boschi e delle selve; incoraggiò qualche attività manufatturiera; creò sbocchi ai prodotti agricoli, al bestiame, ai prodotti minerari, soprattutto al sale.
Quanto alle finanze, rimaste in condizioni disastrose per la contrazione degli introiti e la dilatazione delle spese militari e della pubblica amministrazione, non potendo aumentare le imposizioni dirette o indirette, né contare sugli aiuti della Corona, ricorse a contributi volontari o a prestiti. Dimostratasi impossibile la stipulazione di alcuni prestiti con capitalisti stranieri, ricorse anche alla vendita di feudi e titoli nobiliari e cavalierati, all’alienazione dei beni demaniali, ad imposizioni - previa autorizzazione pontificia - di contributi straordinari sul clero e sugli enti ecclesiastici, e perfino a prelievi dalla “Cassa di redenzione dei Carolini” (cfr. Imeroni).
Altre iniziative umanitarie e paternalistiche furono la trasformazione di un ospizio e di un orfanotrofio di Cagliari in un laboratorio d’arti e mestieri e in un istituto per l’ammaestramento nelle “manifatture” delle fanciulle abbandonate; e nel campo dell’istruzione pubblica la sovvenzione di studenti poveri, la dotazione di borse di perfezionamento, la creazione di una scuola popolare di disegno e d’architettura e la progettazione di un orto botanico presso le due università sarde.
Utili opere pubbliche furono l’avvio nel 1801 dei lavori (poi sospesi per mancanza di fondi, e ripresi infine nel decennio del regno) della grande strada progettata al tempo di Vittorio Amedeo III e destinata, seguendo le tracce di un’antica strada romana, a collegare Cagliari con Sassari; la sistemazione, o riattivazione con i proventi di un apposito donativo, “Ponti e strade”, di molte strade con vantaggio del servizio postale, degli scambi e della pubblica sicurezza; l’inizio del restauro di Porto Torres e della darsena del porto di Cagliari; e l’arginatura di numerosi torrenti (Lemmi, p. 100; Pontieri, p. 169).
C. F. fece istituire a Cagliari una casa di missionari, e fece elevare alla porpora l’arcivescovo di Cagliari, mons. Diego Cadello. Avversò invece per alcuni anni il ristabilimento dei gesuiti, pur sollecitato a più riprese da Carlo Emanuele IV. Nel 1805 però, accogliendo le istanze di vari vescovi e di vari Consigli municipali (che contavano sui gesuiti per l’istruzione pubblica), “si uniformò” alle decisioni di Vittorio Emanuele I.
Infaticabile impegno pose nel salvaguardare la sicurezza e la neutralità dell’isola nonché la sua conservazione alla dinastia. Rafforzò il fragile dispositivo di difesa contro possibili violazioni delle vulnerabili coste da parte dei fuorusciti e dei Barbareschi; si barcamenò tra le pretese dei Francesi e degli Inglesi in modo da non favorire né gli uni né gli altri; osteggiò infine con fermezza, per ragioni sentimentali (amava i Sardi) e per ragioni di principio (la Sardegna aveva conservato alla dinastia l’esistenza politica), taluni progetti di cessione o di permuta dell’isola ventilati tra la fine del 1802 e la primavera del 1804, e poi ancora più tardi.
Consolidatosi con la pace di Presburgo (26 dic. 1805) il predominio napoleonico in Italia, e preso possesso di Napoli (15 febbr. 1806) Giuseppe Bonaparte, Vittorio Emanuele I ritenne inevitabile il ritorno in Sardegna. Nel febbraio 1806 sbarcò a Cagliari, e C. F. abbandonò ogni carica pubblica. Furono portate avanti allora le trattative per il suo matrimonio con la principessa Maria Cristina di Borbone, figlia di Ferdinando IV re di Napoli, avviate sin dal 1803 quando, in viaggio sul continente, C. F. era stato ospite festeggiato dei reali napoletani, che gli avevano donato dodici cannoni e due mezze galere destinate a costituire il nerbo della flotta sarda antibarbaresca al comand di G. A. Agnès Des Geneys.
Ottenuta la dispensa pontificia (i promessi sposi erano cugini), C. F. il 25 febbr. 1807 partì da Cagliari, e il 6 aprile furono celebrate le nozze a Palermo. Gli sposi lasciarono la Sicilia il 21 settembre e sbarcarono a Cagliari il 28. Tranne il periodo aprile-ottobre 1811, quando andarono a visitare i parenti sul continente, trascorsero la vita tra gli ozi campestri della incantevole villa d’Orri messa a loro disposizione dal marchese di Villahermosa, e gli splendidi e raffinati ricevimenti offerti nel loro palazzo di Cagliari.
Tra la corte di C. F. e quella dei sovrani non ci fu sempre buona armonia. Nonostante la “prudenza” attribuitagli dal Manno nel “frenare ogni inconsideratezza di parti”, quando nel 1812 un gruppo di “borghesi del ceto forense” (Sole) ordì una congiura antigovernativa, si sospettarono connivenze in aristocratici dell’entourage di C. F., specie nel Villahermosa, supposto capo di una cospirazione mirante a trasferire la corona da Vittorio Emanuele I a C. F. stesso (cfr. Bianchi, Storia della monarchia…, IV, pp. 472 ss. e la supplica del marchese al re per dimostrare la sua “incolpabilità”, ibid., pp. 681 s.). In questo clima di sospetto fu celebrato a Cagliari, il 20 giugno di quell’anno, il matrimonio tra la principessa Beatrice, figlia di Vittorio Emanuele I, e lo zio materno arciduca Francesco d’Asburgo Este, il futuro duca di Modena. C. F., che aveva in un primo tempo appoggiato la candidatura del fratello della moglie, Leopoldo di Borbone principe di Salerno, simpatizzò presto con l’arciduca, in cui riconosceva affinità di carattere e che dimostrò notevole acume nella sua spregiudicata Descrizione della Sardegna (pubblicata nel 1936 a Roma a cura di G. Bardanzellu).
Già nei mesi a cavallo degli anni 1811-1812 la regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo Lorena, che aveva visto subito nell’arciduca Francesco d’Asburgo Este il temibile concorrente del figlio principe Leopoldo, aveva parlato nelle lettere alla figlia Maria Cristina di una specie di intrigo tendente ad escludere, a vantaggio dell’arciduca Francesco, i duchi del Genevese dalla successione al trono di Sardegna. Ora, se è probabile che nel matrimonio l’arciduca cercasse “una più solida base” per le sue segrete ambizioni, non pare che il testo del rogito, nonostante la contraria “dispiacevole impressione” rilevata da D. Carutti, - in ciò d’accordo con il Bianchi, mentre il Perrero esclude risolutamente intenzioni maliziose negli estensori -, riconoscesse realmente a Beatrice il diritto a succedere al padre. Sembra altresì difficile supporre sia che Vittorio Emanuele I avesse voluto perpetrare un inganno ai danni del fratello sia che egli e lo stesso C. F. avessero di comune accordo inteso, onesti com’erano, compromettere deliberatamente i diritti alla successione, in mancanza di figli maschi, di Carlo Alberto principe di Carignano, della cui educazione e della cui salute entrambi, come già Carlo Emanuele IV, si mostrarono costantemente solleciti. Più verosimile pare l’ipotesi che, con un testo volutamente un po’ ambiguo, si fosse inteso semplicemente predisporre una scappatoia legale in favore della principessa Beatrice nella eventualità che, scomparso Carlo Alberto, allora ufficiale napoleonico, si candidasse alla successione la Spagna. Le voci, comunque, di un mutamento della legge di successione ai danni del Carignano, sopite per la “grossesse” della regina Maria Teresa, ripresero a circolare dopo che, il 14 nov. 1812, ai sovrani nacque tra la “mortificazione generale” un’altra bambina (cfr., sulla questione, Lemmi, C. F., pp. 124 ss.).
L’abdicazione (6 apr. 1814) di Napoleone e l’ingresso (28 aprile) degli Austriaci a Milano, creavano le condizioni per il ritorno di Vittorio Emanuele I in Piemonte, avvenuto trionfalmente il 20 maggio. Mentre la regina Maria Teresa assumeva la reggenza della Sardegna, C. F. rimase nella villa di Orri. Quando il 6 ag. 1815 anche la regina Maria Teresa lasciò la Sardegna, C. F. riprese la carica di viceré e, benché condizionato dal “plan” lasciato dalla regina e dal “manque total d’argent”, s’impegnò ancora una volta con slancio (cfr. Manno, pp. 206-15).
In polemica con Torino riprovò la nomina di tanti funzionari decisa dal segretario di Stato per gli affari della Sardegna, cav. S. Borghese, né gradì la nomina a reggente del conte Lazzaro Calvi. Dopo una razzia dei Barbareschi a Sant’Antioco (portarono in Africa 158 persone), adottò misure di prevenzione. Un certo risveglio segnò in questo periodo l’attività della Società agraria, mentre per impulso delle autorità subalpine e la collaborazione di personalità sarde, come il giovane G. Manno, si riprendeva su basi più ampie il progetto della chiusura dei terreni privati e comunali prevista dal “pregone” del 1806 (Sole, pp. 33 s.). Per fronteggiare una ennesima carestia C. F. importò grani da Genova e fece elargire con mezzi personali pane e vivande ai bisognosi.
Poco poté nei confronti della peste scoppiata nella primavera del 1816; consigliato di lasciare l’isola, lo fece soltanto quando scemò la virulenza dell’epidemia. Partì il 10 giugno 1816, per Napoli con la consorte e un ristretto seguito, comprendente quel G. Manno da lui scoperto e aiutato negli studi e futuro autore di una sua biografia. Il cav. Borghese, considerando la partenza definitiva, lo sostituì con il cav. Giacomo Pes di Villamarina. Ma le rimostranze di C. F., colpito nella sua dignità anche sotto il profilo formale, portarono al ritiro del provvedimento. Così, sia pure nominalmente, C. F. rimase viceré fino alla sua ascesa al trono (4 maggio 1821).
Dopo un periodo di osservazione nel lazzaretto di Portici, trascorse giorni spensierati presso la corte di Napoli. Il 29 marzo 1817 era a Roma, dove visitò Carlo Emanuele IV e incontrò Carlo Alberto, fidanzatosi allora con Maria Teresa di Asburgo figlia del granduca Ferdinando di Toscana, che C. F. conobbe quando il 22 aprile fu ospite a Firenze del granduca. Alla fine di maggio giunse, via Modena, a Venezia; fu, dal 9 al 30 giugno, a Milano. Quindi, dopo diciannove anni, rientrò a Torino, dimorando quasi sempre nella sua villa di Govone appartato dalla politica.
La tempesta che dalla Spagna e da Napoli avanzava verso il Piemonte fu preannunciata dal moto studentesco del gennaio 1821. La notte dal 3 al 4 marzo C. F. partì per Modena, con un seguito di 19 persone e sotto il nome di conte di Govone, ufficialmente per salutare il suocero Ferdinando I di Borbone, reduce dal congresso di Lubiana. Questi passò da Modena il 7 marzo, e per la sera del 12 fu fissato un ricevimento in onore degli ospiti che si ripromettevano di ripartire l’indomani. Ricevimento e partenza furono annullati perché proprio il 12 marzo C. F. ebbe dal marchese Passalacqua, suo secondo scudiere, la notizia della rivoluzione. Il 15 si presentò a lui, latore di una lettera di Carlo Alberto che lo informava degli ultimi eventi, S. Costa di Beauregard, accolto da uno scoppio di collera. In un’altra udienza, sfogato e ammansito, C. F. gli affidò non una lettera di risposta, ma un proclama per i sudditi e l’ordine verbale a Carlo Alberto di portarsi a Novara e attendervi i suoi ordini.
Con il proclama del 16 marzo C. F. dichiarava di assumere “l’esercizio di tutta l’autorità e di tutto il Potere Reale” ma non il “titolo di Re”, annullava “qualunque atto di Sovrana competenza” che potesse “essere stato fatto, o farsi ancora” dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I, e adombrava la possibilità di un “soccorso” da parte degli “Alleati”. Redatto sotto l’influsso di Francesco IV di Modena (cfr. Dallari, e C. Galvani, Memorie stor.… di Francesco IV, Modena 1853, III, p. 27), non fu pubblicato in Piemonte perché giudicato, da un Consiglio di ministri appositamente convocato, emanazione di un re prigioniero. Carlo Alberto, che dovette conoscere il proclama e l’ordine di C. F. non più tardi della sera del 17, partì da Torino soltanto la sera del 21. L’”obéissance” perciò non pare essere stata tanto “parfaite” (per l’interpretazione del ritardo, cfr. Nada, I moti…, p. 184).
Fallita la mediazione tra gli insorti e C. F., tentata dal conte Mocenigo ministro russo a Torino e vista con favore non solamente da Carlo Alberto e dallo zar ma dallo stesso Metternich, consapevole dei rischi dell’intervento armato richiesto da C. F. con lettere del 16, 25 e 29 marzo a Francesco I imperatore d’Austria (per l’opera di Francesco IV di Modena a Lubiana nella stessa direzione cfr. Galvani, p. 32, e Dallari, pp. 945 s.), l’intervento austriaco fu forzato dal “furibondo” editto del 3 apr. 1821. In esso C. F., promettendo perdono ai soldati e punizione agli “officiali di qualunque grado”, riaffermava la fiducia negli Austriaci alleati e ribadiva il dovere dei sudditi di “sottomettersi di vero cuore agli ordini di chi trovandosi il solo da Dio investito dell’esercizio della Sovrana Autorità, era eziandio il solo da Dio chiamato a giudicare dei mezzi più convenienti ad ottenere il vero loro bene”. Per il Metternich l’editto costituiva una “démarche imprudente” (dispaccio al Binder, rappresentante austriaco presso C. F. a Modena, 11 aprile, in Le relazioni…, a cura di N. Nada, II, p. 193), scritto “avec animosité et passion et à la hâte” (cfr. colloquio con Francesco IV a Lubiana, in Dallari, pp. 955 s.). Il suo rigore, come temeva il cancelliere austriaco, esasperò i costituzionalisti ribelli, i quali, compreso che non rimaneva loro se non l’estremo tentativo delle armi, marciarono su Novara, dove si erano raccolte le truppe fedeli sotto il comando di V. Sallier de La Tour. In tal modo, anziché scongiurarlo, giustificarono l’intervento austriaco. L’8 aprile si arrivò allo scontro (Novara-Borgo Vercelli) con le truppe del La Tour e poi con quelle del gen. F. A. Bubna, che occuparono Vercelli e Alessandria (11 aprile), mentre il La Tour occupava Torino il 10 aprile “au nom du Roi”.
Il 19 aprile, nonostante le contrarie pressioni rivoltegli per ragioni diverse dagli imperatori di Russia e d’Austria, dal Metternich, da Carlo Alberto, da Francesco IV e dallo stesso C. F. (che aborriva all’idea di ritrovarsi re “grazie” a una rivoluzione), Vittorio Emanuele I ratificò la rinuncia al trono. Così C. F., il 25 aprile, assunse anche la dignità ed il titolo di re.
Preso per dovere il “redoutable fardeau”, non riconoscendo ora su di sé altri che Dio, pretese subito la “pleine autorité souveraine”. Già il 21 marzo aveva strappato a Francesco I il riconoscimento della “plénitude du pouvoir royal”, a Lubiana, e in aprile il conte I. Thaon di Revel ottenne “la promesse des deux Empereurs” che sarebbe rientrato nei suoi Stati “roi absolu” e che non avrebbero da lui “exigé aucun changement”. Nelle istruzioni al La Tour, che a Milano con il Bubna conduceva le trattative per regolare l’occupazione militare, indicò tra gli obiettivi da raggiungere l’esclusione di ogni ingerenza degli Austriaci nell’amministrazione delle città e delle province nelle quali erano stanziati. In vista poi del congresso di Verona, temendo pressioni per modifiche costituzionali, ribadì nelle istruzioni ai propri rappresentanti all’estero che la repressione de “l’esprit révolutionnaire” invocata dal congresso di Lubiana spettava esclusivamente a lui e che egli era “dans la ferme intention de nen rendre compte à qui que ce soit” (Perrero, Gli ultimi…, pp. 336 s.; Lemmi, C. F., pp. 184s.).
Senza chiedere consigli, pungolando i ministri, principalmente il La Tour, diede avvio alla repressione. Avendo nominato luogotenente generale del Regno I. Thaon di Revel conte di Pratolongo, rimase a Modena, dove lo raggiunsero i responsabili degli Affari Esteri e degli Affari Finanziari, G. Piccono della Valle e il marchese G. C. Brignole. In Piemonte cominciarono a funzionare tre differenti giurisdizioni: un tribunale misto di militari e civili con il nome di Regia Delegazione e con attribuzioni penali, una Commissione militare per indagare sulla condotta degli ufficiali e dei sottotifficiali, e una Commissione di scrutinio per indagare sulla condotta di tutti gli impiegati del Regno.
La R. Delegazione emise, dal 7 maggio al 1º ottobre, 71 condanne a morte (di cui soltanto tre eseguite), 5 condanne alla galera perpetua, 20 a pene tra i 5 e i 20 anni. Dopo il suo scioglimento, i Senati pronunciarono altre 24 condanne a morte, altre 5 alla galeria perpetua, e 12 a detenzioni da 15 a 20 anni. La Commissione militare alla fine di ottobre aveva destituito 627 ufficiali e doveva indagare ancora su 300. La Commissione di scrutinio, articolata in una commissione superiore e in sette giunte divisionali di scrutinio, operò numerose destituzioni e sospensioni di impiegati civili e di professori di ogni ordine di scuola. L’attività della giunta divisionale di Torino (che è stata studiata dal Milano su documenti conservati nella Biblioteca civica di Cuneo e dal Corbelli su documenti conservati nell’Arch. di Stato di Torino), più che crudeltà, dimostrò grettezza. Fu severa soprattutto (e le istruzioni del ministro degli Interni, G. G. Roget de Cholex, del 13 agosto furono esplicite) nei confronti delle “persone applicate all’insegnamento pubblico”, trattate con tanto maggiore severità quanto maggiore era la loro notorietà. Fu questo il caso di alcuni professori dell’università di Torino che, come il Collegio delle provincie, venne chiusa. Per C. F. “tout ce qui a étudié à l’Université est entièrement corrompu”; “les professeurs sont abominables” e non rimpiazzabili perché “les mauvais sont tous lettrés et les bons sont ignorants” (lett. 9 maggio 1822).Benché le autorità regie (particolarmente il governatore di Genova Des Geneys) cercassero di favorire o di non ostacolare la fuga dei compromessi, e le stesse Commissioni giudicassero con qualche barlume di indulgenza, al clima di terrore istaurato “in alto non meno che nel basso” (Perrero, Gliultimi…, pp. 288-293)si accompagnarono l’abitudine alla delazione, la diversità di idee politiche pretesto a vendette private, le lacerazioni sociali e familiari (cfr. anche Romeo, DalPiemonte…, pp. 33 s.).
Dopo la prima ondata repressiva, in autunno, più volte sollecitato da Vienna e da Pietroburgo, C. F. decise di rientrare nei suoi Stati. Da Piacenza, il 30 sett., pubblicò due editti. Con uno vietava adunanze e associazioni segrete, e con l’altro concedeva una amnistia, la quale - presentata come “pieno” indulto e condono per gli eccessi avvenuti - in realtà prevedeva tali restrizioni ed eccezioni da giustificare i sarcasmi e le ingiurie dei fogli liberali francesi e spagnoli, che ospitavano scritti di fuorusciti sardi. Il 10ottobre era a Govone, ed entrava in Torino il 17, colmo di “répugnance extrème” verso la città teatro di uno “scandale orrible”.
Epurati l’esercito e la burocrazia (tra gli altri giubilò, o trasferì a cariche di puro prestigio, il conte Lodi, P. Balbo, A. Saluzzo e A. Asinari di San Marzano), pretese il giuramento di fedeltà dal clero, dai “deputati” delle città e dei comuni, dai militari e dai nobili.
L’esercito (costretto a giurare di difendere “la real persona… anche contro i suoi propri sudditi”, e a “non apparteneread alcuna setta o società proscritta”), sottoposto ad una severissima disciplina e allo spionaggio dei sentimenti e delle opinioni, cessò di rappresentare un richiamo per i giovani di più sveglio ingegno. Anzi, almeno fino alla rivoluzione di luglio, vide esaltare a suo danno il ruolo della marina affidata all’ammiraglio Des Geneys (specie dopo l’impresa di Tripoli del settembre 1825), e vide svilire il proprio a strumento di polizia e di tutela dell’ordine. Ma anche per questo compito C. F. si servì soprattutto dei carabinieri che, in generale, negli ultimi torbidi avevano dato prova di fedeltà (cfr. Berengo, e le Notizie storiche redatte dal comandante dei carabinieri col. G. M. Cavasanti, in Risorg. ital., V [1912], I, pp. 1 ss.). Soppresso il ministero di Polizia che aveva dato cattiva prova nelle ultime vicende, C. F. riaffidò ad essi le funzioni di alta polizia politica, e concesse loro vari privilegi come il rango del grado immediatamente superiore.
La nobiltà, altro pilastro della dinastia, aveva rinforzato le fila dello schieramento costituzionale e antiaustriaco, e poi quelle dell’emigrazione coatta. Alcuni nobili avevano scelto liberamente, come M. d’Azeglio, di andare a vivere lontano. I più però, pur umiliati dal giuramento imposto dal re, avevano finito con l’adeguarsi e legarsi ancor più alla dinastia. Per risollevare il prestigio di questa nobiltà, che cominciò ad affollare le sale del palazzo reale (cfr. i sarcasmi del Brofferio e quelli dei Sauli sul “servidorame dorato”), proseguendo l’opera del predecessore, emanò le patenti con le quali venivano ristabilite di colpo tutte le commende mauriziane patronate esistenti in Piemonte prima del 3 genn. 1801 e ne veniva ricostituito il patrimonio.
La richiesta del giuramento al clero fu motivata dalle sospettata infiltrazione di idee liberali. Il consenso della S. Sede fu concesso con alcune limitazioni; i vescovi furono delegati a ricevere il giuramento del clero, ma obbligati a giurare personalmente nelle mani del sovrano. Come la fedeltà del clero, anche le pratiche di devozione, i riti, l’organizzazione ecclesiastica e la stessa ortodossia cattolica furono componenti della restaurazione assolutistica. Coerentemente C. F. limitò i privilegi e le esenzioni della Chiesa che gli apparivano lesivi dell’autorità dello Stato. Donde la riduzione dell’immunità dei luoghi sacri, la citazione degli ecclesiastici come testimoni davanti ai tribunali laici, il visto civile per catechismi, pastorali, libri sacri.
In questa ottica venne affrontata la questione dei beni ecclesiastici, secolarizzati dal governo piemontese con il consenso del papa sin dal 1792, e poi dai Francesi con iniziativa unilaterale. C. F. affidò a un congresso straordinario ecclesiastico-ministeriale il compito di proporre una sistemazione definitiva dell’intero asse ecclesiastico. Le proposte, recate nel dicembre 1827 a Leone XII dall’ambasciatore straordinario Filiberto Avogadro di Collobiano (giovane ufficiale anch’egli entrato nelle grazie del sovrano in seguito a un incontro fortuito), furono esaminate da una congregazione di cardinali che si irrigidì su alcuni aspetti finanziari e su alcune questioni di principio. Riconvocato il 1º apr. 1828 un nuovo congresso, il re raccomandò flessibilità sulle questioni finanziarie, ma rigidità sulle proposte di principio, formulate in modo inaccettabile per uno Stato dalla viva tradizione giurisdizionalistica. L’accordo raggiunto venne sanzionato dal breve pontificio del 14 maggio 1828 (cfr., oltre i docc. in Arch. di Stato di Torino, Lemmi, pp. 221 s., Chiuso, III, pp. 85 s., e Bianchi, St. d. dipl., II, pp. 160 s.).
Esemplare fu anche la vicenda della Amicizia cattolica, potente associazione di laici richiamantesi alla settecentesca Amicizia cristiana, ma avente caratteristiche nuove (cfr. C. Bona, Le “Amicizie…”, Torino 1962, e le altre opere cit. in Romeo, Cavour…, pp. 97 ss., 229 s.). Attraverso il suo organo ufficiale, L’Amico d’Italia, condannava ogni rivoluzione, sosteneva la “legittima autorità”, difendeva i gesuiti, attaccava la pedagogia di Rousseau. Quando però, accusata di essere strumento dei gesuiti e in collegamento con la detestata Congrégation parigina, parve essere divenuta “l’instrument occulte d’un parti” (A. Saluzzo, in Romeo, op. et loc. cit.) con infiltrazioni in ogni settore chiave dello Stato, C. F. che l’aveva sempre protetta cominciò a diffidarne, e si lasciò indurre nel 1928 da un esplicito intervento del governo russo a decretarne la soppressione.
Al congresso convocato a Verona nell’autunno del 1822 C. F. si recò (dopo aver deciso, prevedendo sollecitazioni esterne, alcune riforme riguardanti il regolamento notarile, i tribunali e il sistema ipotecario) per chiedere la fine dell’occupazione austriaca e per tentare di ottenere la modifica dei diritti alla successione del trono di Sardegna.
La convenzione di Novara del 24 luglio 1821 aveva fissato proprio al settembre 1822 il termine “provisoirement convenu” dell’occupazione austriaca. In vista di quel termine la diplomazia sarda si era mossa, a Parigi e a Londra, per assicurare appoggi alla richiesta di evacuazione che C. F. si accingeva a fare. Il gabinetto austriaco, conosciute queste “démarches”, fece risentite rimostranze. Ma a Verona, dove il sovrano era giunto il 31 ottobre, quando venne posto in discussione questo problema, egli non poté far valere l’appoggio francese e inglese. Ottenne perciò soltanto l’impegno (trattato del 14 dic. 1822) della riduzione progressiva degli effettivi del corpo di occupazione fino alla sua evacuazione, fissata al settembre 1823.
A Verona fu anche trattata, sia pure in forma privata, la questione dei diritti di Carlo Alberto. I rapporti del principe di Carignano con C. F., conVittorio Emanuele I, Carlo Emanuele IV e Maria Teresa d’Austria sono stati studiati soprattutto dal Perrero sulla “corrispondenza reale” conservata presso l’Archivio di Stato e presso la Biblioteca reale torinesi. In polemica con il marchese Costa di Beauregard, egli ha dimostrato che i “reali” del ramo primogenito, ed anche “l’austriaca” Maria Teresa, considerarono sempre Carlo Alberto come principe del sangue ed erede al trono, ma che furono nello stesso tempo costantemente preoccupati (oltre che della sua salute) della educazione “trop libre” da lui ricevuta. Solo con la comparsa di Francesco d’Austria Este come pretendente e poi come sposo della principessa Beatrice, i dubbi sul recupero di Carlo Alberto a un sistema di valori così diverso da quello in cui era stato formato favorirono il sorgere di sospetti e di intrighi per privarlo dei diritti alla successione. Anche se il congresso di Vienna ne ratificò i diritti, quei sospetti non scomparvero mai. Secondo il Costa di Beauregard, Maria Teresa, la “pire ennemie” di Carlo Alberto, avrebbe tentato ancora in occasione del congresso di Aix-la-Chapelle di farlo spogliare del diritto alla successione a favore del proprio fratello. L’astio di C. F. verso Carlo Alberto, sempre secondo il Costa di Beauregard, sarebbe nato al loro primo incontro a Roma nell’aprile del 1817, e si sarebbe rinfocolato nell’ottobre successivo per una presunta violazione di cerimoniale perpetrata dal principe al momento del suo ingresso solenne con la sposa a Torino. Se queste accuse non paiono documentate, è un fatto che, pur ricevendolo di tanto in tanto nella sua villa di Govone, C. F. non riuscì mai a stabilire con lui una intesa cordiale. Nel 1821ebbe poi la prova evidente della condotta equivoca del Carignano, culminata nel “crime orrible” (la concessa costituzione) che C. F. non gli perdonò mai. L’indignazione e l’odio di C. F., temperati un po’ dalla “parfaite obéissance”, si riattizzarono ancor più quando Carlo Alberto aggiunse il suo agli altri inviti volti a far riprendere la corona a Vittorio Emanuele I, e quando nell’aprile pubblicò il Memoriale a difesa del suo operato. C. F. smise di rispondere alle sue lettere, riempì la sua corrispondenza di giudizi sprezzanti sul “triste rejeton” della famiglia, sulla “vipère engourdie par le froid”, ma pronta a “piquer”, sul perfetto dissimulatore, sull’uomo senza carattere, e così via. Sobillato anzi dal duca di Modena maturò l’idea di escluderlo dalla successione, trasferendo direttamente questa al piccolo Vittorio Emanuele attraverso una reggenza. A tale scopo, tramite il riluttante conte di Pralormo, chiese il consenso di Vienna (gennaio 1822). Il Metternich però, pur convinto che Carlo Alberto “avait joué le rôle de portedrapeau de la Révolution”, temeva con mosse sbagliate di respingere il principe tra le braccia della Francia; dichiarò perciò che una così grave deroga al principio di legittimità richiedeva non sospetti, ma “une masse de preuves” capaci di creare nei sovrani e nell’Europa “la convinction la plus forte et la plus profonde”. Poiché C. F., che pur avrebbe desiderato veder processato Carlo Alberto, da una parte voleva restarne unico giudice e dall’altra non voleva fare “il fisco al nepote in una specie di processo davanti all’Europa” (Lemmi, p. 195;P. Vaira, Laleggenda di una corona, Torino 1896, p. 158), congelò per allora il progetto.
La questione fu ripresa a Verona, dove C. F. si era recato con il La Tour e il Pralormo, e dove il granduca Ferdinando III di Toscana aveva inviato il ministro don Neri dei principi Corsini a tutelare gli interessi del genero. In quella sede il Metternich ribadì la sua posizione, e propose che i sovrani alleati spiegassero la loro influenza per indurre il principe di Carignano ad impegnarsi solennemente a lasciare immutate, una volta salito al trono, le basi della monarchia assoluta. Secondo il Lemmi (p. 196), C. F. si riservò di valutare autonomamente la proposta del cancelliere austriaco, in quanto desiderava obbligare il suo successore sul piano della coscienza senza però farne un protetto della Santa Alleanza; secondo il Bianchi (Documenti…, p. 310), l’avrebbe “accolta con piacere, perché esprimeva pienamente il suo intendimento”.
Dopo il congresso di Verona risultò definita la questione politica della successione dinastica, ma non quella morale della colpa e dell’espiazione. Per richiamare Carlo Alberto dall’esilio di Firenze - segno tangibile del perdono, perorato da ministri, diplomatici, sovrani e dallo stesso pontefice - C. F. attendeva la circostanza propizia. E questa fu la richiesta di Carlo Alberto di partecipare alla spedizione del duca d’Angoulême contro i costituzionali spagnoli. Non vedendo altro mezzo per chiudere “cette orrible affaire”, nonostante alcune perplessità austriache, C. F. gliene diede il permesso, ma (”poco cristianamente” secondo il Luzio, Carlo Alberto e Mazzini, Torino 1923, p. 4) nella lettera del 24 apr. 1823, con cui informava il fratello, aggiunse che in tal modo o “il se fera casser la tête” e allora tutto sarebbe finito, o si sarebbe messo in condizione di “réparer en partie” ai suoi torti che restavano “les plus atroces”. Il Carignano riscattò nell’episodio del Trocadero la colpa del cedimento costituzionale, e il 3 dicembre rientrò a Parigi, accolto calorosamente dalla corte e dal governo francesi, e là verso la fine del mese firmò solennemente il giuramento di conservare intatte, una volta salito al trono, le forme organiche della monarchia, e di creare un Consiglio di Stato destinato a vigilare sulla loro intangibilità. Poté così rientrare a Torino, la sera del 7 febbraio, ritardato dalla malattia e dalla morte di Vittorio Emanuele I che rattristò moltissimo Carlo Felice. L’”accueil particulier” fu “paternel”, e il principe di Carignano si mostrò soddisfatto delle “bontés” del re. Nel dicembre 1824, in riconoscimento del comportamento onorevole in Spagna, C. F. lo nominò generale di cavalleria. Nel marzo del 1825, volendo sanzionare la nuova sentenza, il sovrano depositò negli Archivi del Magistrato d’appello di Torino il suo testamento, nel quale riconosceva Carlo Alberto “pour vrai et légitime héritier”. Ma come non si cancellarono gli “anciens souvenirs” dal suo animo, così non cessarono le voci di intrighi e di connivenze sardo-asburgiche ai danni del Carignano.
Al convegno di Genova proposto dal governo austriaco a quello sardo per un esame della situazione politica della penisola (C. F. vi giunse il 13 apr. 1825)fu fatto intervenire anche Carlo Alberto, al quale l’imperatore e il Metternich ammannirono paterni sermoni e dimostrarono considerazione. Parve dimostrata “la fausseté des bruits” sui “sotterranei intrighi austriaci” per privarlo della “regia eredità” (Bianchi, Documenti…, p. 328).E invece, ai tempi del ministero Martignac e della guerra russo-turca, in Francia ripresero a circolare voci di accordi sardo-austriaci ai danni del Carignano. In questo periodo, anzi, avrebbe ordito trame “per assicurarsi la reggenza se non la successione al trono di Piemonte” anche il duca di Modena (cfr. R. Soriga, Francesco Tadini e le così dette trame austro-estensi contro il Principe di Carignano, in Risorgimento italiano, s. 3, XXIII [1930] pp. 477-485).L’Avetta (p. 105) ricorda infine un proclama trasmesso a Torino il 25agosto dell’anno 1830dal ministro a Parigi, P. F. Sales, in cui gli esuli invitavano i Piemontesi a rimpiazzare C. F. con Carlo Alberto alle condizioni accettate da Luigi Filippo. Proprio l’atteggiamento del principe di fronte alla rivoluzione di luglio, invece, persuase C. F. del suo ravvedimento e lo indusse ad accordargli fiducia e perdono.
Anche se non alieno dal prendere in esame ipotesi di ingrandimenti territoriali, C. F. non coltivò vere e proprie mire espansionistiche (cfr. Lemmi, La polit. estera…, p.93; Bianchi, St. … della dipl., II, p. 77), mentre dedicò molte cure agli interessi commerciali dei suoi Stati. Nel 1821, mediatrici l’Austria e l’Inghilterra, stipulò con la Porta un vantaggioso trattato di commercio. Nel settembre 1825, per indurre il baldanzoso bey di Tripoli all’osservanza del trattato firmato nel 1816 sotto gli auspici dell’Inghilterra, ed al rispetto della bandiera sarda lungo le coste dell’Africa settentrionale, non rifuggì neppure da una dimostrazione di forza.
Verso la fine del mese due fregate, “Commercio” e “Cristina”, una corvetta, “Tritone”, e un brigantino, “Nereide”, al comando del capitano di vascello F. Sivori, comparvero davanti a Tripoli. Fallito un estremo tentativo di pressione sul bey, nella notte del 27 settembre 10 scialuppe sarde penetrarono nel porto e, incendiati un brick e due golette tripoline e sbaragliate o massacrate le truppe accorse in aiuto, costrinsero il nemico a venire a più miti consigli (cfr. la relazione stesa dall’amm. Des Geneys, in Arch. di Stato di Torino).
Pur afflitto da difficoltà economico-finanziarie e caratterizzato da un rigido protezionismo, il regno di C. F. non fu privo di iniziative nel campo dei servizi e delle opere pubbliche. Si ricordano in particolare quelle attuate nel settore minerosiderurgico, in quello delle convenzioni postali e delle vie e dei mezzi di comunicazione, in quello creditizio e assicurativo, il quale cominciò ad acquistare vivacità proprio negli ultimi anni del regno di C. F. con la creazione nel 1827 della Cassa di Risparmio di Torino e con la costituzione nel giugno del 1829 della Società mutua di assicurazioni. In quello stesso anno 1829 ebbe anche luogo al Valentino una esposizione dei prodotti industriali e artigianali con la partecipazione di 500 espositori. Perseguendo lo sviluppo di tutte le “arti” (manufatturiere, agricole, arti belle), C. F. istituì per l’occasione premi di incoraggiamento e stabilì che l’esposizione si ripetesse ogni tre anni.
Numerose furono le opere pubbliche: ponti sulla Bormida e sul Ticino, la strada litoranea Nizza-Genova già iniziata da Napoleone e terminata nel 1828, la sistemazione del porto di Nizza, la costruzione del teatro di Genova intitolato a C. F. stesso, e soprattutto la sistemazione urbanistica e l’abbellimento di Torino secondo un piano regolatore modello (maestoso ponte sulla Dora, varie strade e piazze come piazza Carlo Felice, canali sotterranei, sistemazione dei portici di piazza Castello, dei sobborghi, e di varie chiese ed edifici pubblici). Benché Torino si abbellisse, C. F. continuava a preferirle Genova (dove si recava spesso e dove trascorse anche gli ultimi due mesi del 1830), Nizza (nel 1826 vi passò i mesi di novembre e di dicembre, e nell’anno 1829 vi trascorse tutto l’inverno) e la Savoia.
Il primo viaggio in questa regione lo compì nell’estate del 1824 con la regina e la duchessa del Chiablese, visitando Chambéry, Annecy, Evian e altri centri transalpini. Da Aix-les-Bains si recò quasi in pellegrinaggio alla vecchia abbazia di Altacomba, che - “hommage filiale… à la memoire des ses pères” - riscattò con denaro proprio per farla restaurare. La rivisitò nell’estate del 1826 in occasione di un secondo viaggio, mentre erano in corso appunto i lavori di restauro. Il 7 agosto firmò con il Barbaroux il decreto della seconda fondazione dell’abbazia, che affidò in custodia ai cisterciensi del convento torinese della Consolata e che, preferendola alla Superga “magnifique, pompeuse et dominatrice” (R. Avezou, Le centenaire de la morte du roi Charles-Felix, in L’Echo de Savoie, 5 apr. 1931), designò a sua estrema dimora. Fece un terzo viaggio in Savoia nell’estate del 1828 intrattenendovisi due mesi e un ultimo viaggio nel luglio del 1830.
Non rimise invece piede in Sardegna, che però non trascurò. Negli anni 1822-1828 fece riprendere i lavori per la grande strada trasversale Cagliari-Porto Torres, poi intitolata al suo nome; corresse con criteri di decentramento la legge sulle prefetture; introdusse le cartelle del credito pubblico; regolamentò la materia delle dogane e del contrabbando. Con l’editto delle Chiudende, infine, promulgato il 6 ott. 1820, ma pubblicato soltanto il 4 apr. 1823 (cfr. in Torino, Bibl. reale, Mss. st.patria, vol.866, Carte relative all’editto delle Chiudende, e in Arch. di Stato di Cagliari, Segreteria di Stato, s. 2, Chiudende, vol.58; cfr. anche Sole, pp. 35 ss., 315 ss.), si propose - sulla linea di una tradizione risalente al pensiero del Settecento e più recentemente sostenuta dalla Società agraria, dagli incaricati di funzioni viceregie, da funzionari della segreteria di Stato per gli affari della Sardegna e infine da P. Balbo - di incrementare la proprietà, borghese e la produttività. Per le resistenze però dei feudatari, dei pastori ed anche dei Consigli comunitativi, l’editto delle Chiudende trovò in quegli anni scarsa applicazione. Ad una intensificazione seguita ad un viaggio di Carlo Alberto in Sardegna, verso la fine del decennio, corrispose una violenta reazione da parte dei pastori in varie zone dell’isola. L’impresa più impegnativa fu il Corpo delle leggi civili e criminali del Regno di Sardegna promulgato il 16 genn. 1827.
Secondo il Manno, il merito principale sarebbe del conte Roget di Cholex che riuscì a vincere le titubanze di C. F., timoroso di ogni novità (p. 288). Come osservava il Lattes, studioso del corpus (vedine il saggio in Sole, pp. 405 ss.), C. F. aveva avuto modo, durante la sua permanenza nell’isola, di constatare lo stato di confusione e di inferiorità della legislazione sarda rispetto a quella degli altri regi Stati. La formazione del corpus vide impegnati i migliori giuristi sardi sia a Torino sia a Cagliari. Preparato a Torino dal Consiglio supremo di Sardegna, il progetto fu poi esaminato da una apposita commissione sarda e poi dalla Reale Udienza di Sardegna. Più che opera originale, fu “il risultato di una selezione delle fonti insulari e delle continentali, tanto nazionali quanto straniere” (Lattes). Secondo il Sole (p. 65) gli aspetti più nuovi riguardavano il campo del diritto penale con l’abolizione del “guidatico” (impunità a delinquenti che avessero catturati altri delinquenti) e delle “esemplarità” (atroci esacerbazioni della pena capitale, come lo squartamento dei cadaveri e la dispersione delle ceneri), con le restrizioni nella comminazione della pena di morte, con l’affermazione del concetto di proporzionalità della pena al reato e la distinzione tra reato tentato e reato commesso.
C. F. fu sorpreso dallo scoppio della rivoluzione di luglio ad Altacomba in Savoia. Benché vecchio e malaticcio, predispose o autorizzò lucidamente tutte le misure volte a fronteggiare invasioni dall’esterno o insurrezioni all’interno. Fu istituito uno speciale Congresso militare e ministeriale per coordinare le iniziative contro i rivoluzionari e i fuorusciti; furono potenziati gli effettivi dell’esercito, le guarnigioni di frontiera, gli armamenti delle fortezze. Sul piano interno, fu ordinata una rigorosa sorveglianza nelle province, fu vietata l’introduzione della stampa francese, e furono ordinate requisizioni di armi nelle botteghe degli armaioli. Nello stesso tempo, si cercò d’impedire ogni motivo d’agitazione, circondando di silenzio l’attività dei carbonari di Genova e la corrispondenza degli esuli con i rivoluzionari interni, evitando arresti, condanne ed anche nuove imposizioni tributarie. Più tardi fu ordinata la chiusura delle università di Torino e di Genova.
Troncate le relazioni ufficiali con la Francia di Luigi Filippo, il governo piemontese si fece promotore di una coalizione europea, ma la proposta fu accolta freddamente e “presque avec indifference” dal Metternich (Pralormo, 25 ag. 1830), il quale preferiva legare il Piemonte esclusivamente all’Austria. Rassegnatosi, sull’esempio delle potenze europee, Inghilterra in testa, al riconoscimento della Francia orleanista (metà ottobre), C. F. affrettò le trattative per un accordo militare con l’Austria già iniziate nel 1829e poi concluse da Carlo Alberto.
La guerra comunque non ci fu e neppure la rivoluzione all’interno, a parte un fallito tentativo di fuorusciti in Savoia e lo scalpore prodotto in Torino da un volantino antiassolutista redatto da G. Durante (Brofferio, St. d. Piem., II, pp. 145 ss.).
Celebrato per procura, il 12 febbr. 1831, il matrimonio della nipote principessa Maria Anna con il principe ereditario d’Austria, l’arciduca Ferdinando, C. F. volle accompagnarla a Milano. Giuntovi il 14, vi si fermò poche ore perché era preoccupato di “tout ce que ce passe” (ai primi del mese c’era stata la sollevazione nell’Italia centrale). La sera del 18 rientrò a Torino e, saputo dello stampato antiassolutista, dimenticò di colpo le calde accoglienze ricevute a Novara e a Vercelli.
Sentitosi male, ai primi di marzo l’allarme per la sua salute aumentò. Il 17 dovette trasferire il potere di firma alla regina. La notte dal 19 al 20 volle presso di sé Carlo Alberto; gli avrebbe detto: “Je meurs content de vous”. Il 24 lo presentò come erede e successore e il 6 aprile lo benedisse. Lucido di mente e forte d’animo fino all’ultimo, si spense nel pomeriggio del 27 apr. 1831, e dopo qualche giorno fu portato ad Altacomba.
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