Marco Revelli
Sull’estensione della povertà, che ormai colpisce gruppi sociali un tempo annoverati fra i garantisti, riprendiamo da Il Manifesto di mercoledì questa acuta riflessione di Marco Revelli.
Qualcuno li aveva chiamati - bestemmiando - privilegiati. Intendo gli operai: quelli che hanno avuto il privilegio, appunto - non il diritto - di possedere un posto di lavoro. Oggi scopriamo che un buon numero di loro sono poveri. Tecnicamente poveri.
L’Istat, nella sua nota annuale su “La povertà in Italia” ci dice che il 15,4% delle famiglie «con a capo un operaio o assimilato» - quasi una su sei - è in condizione di povertà relativa: cioè che la loro spesa mensile sta del 50% sotto quella della media del resto della popolazione. Che sono, di fatto, degli emarginati. Nel Meridione la percentuale arriva al livello record del 30%, quasi una famiglia operaia su tre è povera.
Ancor più sconvolgente il dato sulla povertà assoluta (coloro che non possono permettersi neppure il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa: cibo, abitazione, cure…). Il 7,5% delle famiglie operaie in Italia è «assolutamente povero», in crescita di oltre un punto percentuale rispetto allo scorso anno, mentre se almeno uno dei componenti (un figlio, normalmente) è alla ricerca di lavoro, la percentuale sale all’11,5%. Figuriamoci cosa accade tra le famiglie in cui non ci sono né occupati né “ritirati dal lavoro”: qui la percentuale di povertà assoluta schizza al 22,3%, quasi tre punti in più rispetto al 2010, e quella relativa cresce addirittura di dieci punti, dal 40,2% al 50,7%, a dimostrazione di quanto sanguinosi devono essere stati i tagli ai sussidi pubblici.
Difficile non parlare, di fronte a questi numeri, di macelleria sociale a cielo aperto, tanto più che chi conosce bene i meccanismi di questa triste matematica sa che le rilevazioni ufficiali si limitano a rendere visibile la punta dell’iceberg, la povertà conclamata, senza registrare la fascia ampia di chi sta appena al di sopra della soglia di povertà, ma è di fatto un “povero” per via dei debiti contratti, del mutuo da pagare, del peso di un’invalidità o una non-autosufficienza in famiglia…
Ora, se incrociamo queste crude cifre con le ricette dei gendarmi finanziari internazionali - della famigerata troika, sotto la cui scure prima o poi si va a finire -; se confrontiamo la misura della povertà sociale, giunta ormai al fatidico osso, con la richiesta, standardizzata, di ulteriori tagli alle remunerazioni e agli organici, ai servizi alle persone e alla spesa sociale imposti oggi alla Grecia domani forse a noi, abbiamo chiara la visione dell’impraticabilità del paradigma dominante. Un conflitto ormai visibile a occhio nudo tra i suoi dogmi e la stessa nuda vita.
C’è uno zoccolo duro che non può essere intaccato, costituito dalla pura, elementare esistenza. I dati ci dicono che su di esso la crisi ha incominciato a premere con tutto il suo peso, e che non ci sono altri margini di manovra. Altra flessibilità da gestire. C’è un mondo del lavoro che ha dato tutto, e anche qualcosa di più: dai suoi punti di resistenza occorre ripartire per ridefinire le linee di un nuovo paradigma socio produttivo e politico, rovesciando priorità, valori e programmi. Questo è il vero conflitto di competenza di cui occuparci oggi.
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