Alfio Mastropaolo
Continuiamo la riflessione sul governo Monti con questo nuovo articolo del Prof. Mastropaolo, pubblicato sul manifesto di martedì. In realtà, stiamo assistendo al paradosso di un governo nominato dall’alto con manifestazioni di assenso sperticato dei soggetti iperliberisti (organi europei e mondiali politici e bancari) che lo hanno imposto. Ben vengano, dunque, le riflessioni - come questa - fuori dal coro, che ci aiutano a mettere i piedi per terra.
Chi mai penserebbe che Napoleone fosse un tecnico? Eppure a modo suo lo era. Era un militare di professione con la vocazione della politica, che riuscì ampiamente a soddisfare. Se ci si permette il confronto, perché Mario Monti passa invece per tecnico e basta? Non sarebbe più appropriato definirlo un accademico, con una vocazione alla politica, che ha già fatto in molti modi e che rappresenta un vero e proprio partito, il quale, benché virtuale, persegue un suo bravo disegno di potere?
Quando gli storici avranno modo di accedere agli archivi delle istituzioni e dei protagonisti ricostruiranno la vicenda in dettaglio. A noi troppi fatti sfuggono, ma qualche tessera del mosaico è nota. L’azione delegittimante svolta dalla grande stampa contro i partiti e la casta, le mosse dei potentati economici che tirano le redini dei cosiddetti mercati, le preoccupazioni di milieux qualificati come i vertici ecclesiastici, e via di seguito, hanno gran parte in questa storia. Iniziata col disastro perpetrato dal governo Berlusconi. Il governo che ha potuto contare sulla maggioranza parlamentare più ampia nella storia repubblicana, e sull’opposizione più inconcludente, ne ha profittato per imbastire miserabili affari sulle spalle dei terremotati aquilani, per sperperare denaro pubblico nella privatizzazione di Alitalia (sotto la regia di uno dei più autorevoli ministri del governo Monti) e per compiere infiniti altri terribili pasticci.
Le teorie del complotto funzionano nei gialli e non nel mondo reale. Tuttavia l’Italia ha da offrire al grande business internazionale alcuni succulenti bocconi: Eni, Generali, Enel, Finmeccanica e molte altre cose ancora. È inverosimile che gli interessati si siano accomodati intorno a un tavolo e abbiano deciso un piano d’attacco, anche perché farsi la forca vicendevolmente fa parte del gioco. Ma il debito pubblico italiano, nella situazione di vulnerabilità creatasi grazie all’Euro e alle malefatte del governo Berlusconi, ha offerto agli interessati un’occasione irripetibile (come già nel 1992). CONTINUA|PAGINA3 Quale opportunità migliore di liberarsi di un comico poco spiritoso e molto inconcludente per sostituirlo con qualcuno più qualificato e più coerente coi loro disegni?
Napoleone fermò (non del tutto) la ghigliottina e ripristinò un po’ di ordine. Più modestamente Monti ha dato un taglio a olgettine e esibizioni del dito medio e sta riordinando a modo suo lo Stato sociale. Sopra ogni cosa però testimonia che in democrazia il voto non è tutto, né lo sono le regole formali. Napoleone mosse i reggimenti, ma, in omaggio al popolo sovrano, si fece poi incoronare dal Consiglio dei Cinquecento, sì imperatore, ma della Repubblica francese. Oggi i metodi sono meno rumorosi e le regole costituzionali sono rispettate con più scrupolo. Ma anche in democrazia esistono poteri decisivi che prescindono dal voto. Una volta Andreotti, che se ne intendeva, disse che «non si governa contro i metalmeccanici». Non era una battuta. Per rimuovere l’ostacolo da un pezzo si chiudono le fabbriche. Con la conseguenza che oggi non si governa contro i banchieri, ossia contro un potere transnazionale, coerente col mondo globalizzato in cui ci tocca vivere.
C’è da presumere che Monti, che è il fiduciario di tale potere, persegua il suo disegno in assoluta buona fede. Se uno ragiona su scala globale, il bene del paese consiste nel renderlo meno indolente e meno dissipatore, smettendo di viziarlo con la sanità e la scuola pubbliche o col mito del posto fisso. Ma in ottima fede probabilmente era pure Berlusconi, che quando faceva i suoi affari era persuaso di beneficare gli italiani. Del pari la distanza tra i rispettivi disegni è più breve di quanto non suggeriscano la sobrietà del primo e la volgarità del secondo. Entrambi immaginano una condizione d’inselvatichimento che stimolerebbe le energie vitali del paese. Monti la vorrebbe un po’ più disciplinata; Berlusconi non tollera le regole, tolta quella del più furbo. Le forme sono importantissime. Ma, al netto delle forme, dove sta la differenza?
Che Monti abbia un disegno politico lo confermano la sua indispettita risposta alla prospettiva di un patto sociale che coinvolga imprenditori e sindacato, appena adombrata da Camusso e Squinzi e le preoccupazioni che ha espresso sul dopo elezioni 2013. Non tutti gli scenari immaginabili sono graditi al partito virtuale dei banchieri. Vincesse la destra sarebbe il deprimente remake del berlusconismo. Vincesse la sinistra il patto sociale troverebbe una sponda politica e per il partito virtuale sarebbe fin peggio: tant’è che la stampa a suo servizio ha subito dato addosso a Squinzi, per Monti reo nientemeno che di leso spread. Restano la grande coalizione e un governo Pd-Udc. Che sarebbero graditi, specie se Monti ne fosse il garante. Dei politici convenzionali meglio non fidarsi.
Insomma, Monti ha appena detto tra le righe: il partito virtuale non corre alle elezioni, ma vigila ed è forte abbastanza da porre condizioni per il dopo. Magari col contorno di qualche ministro politico, lui è pronto a continuare. Sempre che non l’eleggano al Quirinale, dove, in virtù dei poteri conferitigli, e di qualche strappo alla prassi (che Scalfari da tempo raccomanda), potrebbe nominare un premier di gradimento suo e del partito virtuale, quale che sia l’esito delle elezioni. La chiamano democrazia.
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