Loris Campetti
Almeno dagli inizi del ‘900 e per tutta la storia repubblicana i ministri del lavoro hanno agito nella prospettiva di migliorare la condizione dei lavoratori, temperando i poteri degli imprenditori o introducendo istituti di previdenza o regolando l’orario e le modalità di lavoro. La Fornero è l’unico ministro del lavoro impegnata a peggiorare le condizioni dei lavoratori e, per di più, ne mena vanto. E dunque azzeccato il titolo dell’editoriale di Loris Campetti, apparso sul Manifesto di giovedì, che di seguito pubblichiamo.
L’Italia non è più una «repubblica democratica fondata sul lavoro», non riconosce più «a tutti i cittadini il diritto al lavoro» e neppure «promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Chi pensava che i voti di fiducia sulla controriforma del mercato del lavoro avrebbero colpito al cuore lo Statuto dei lavoratori, deve oggi prendere atto che l’ammucchiata parlamentare di ieri ha addirittura segato i pilastri su cui si regge la nostra Costituzione. Lo ha detto con la chiarezza che la contraddistingue Elsa Fornero, forse il peggior ministro del lavoro della storia repubblicana. Il peggiore, perché almeno Sacconi, che non è certo fatto di una farina migliore, aveva uno straccio di opposizione sindacale e addirittura politica ad arginarne gli istinti più animali. Fornero invece può dire ciò che vuole. Ieri si è tolto il dente malato, quello del giudizio, sentenziando che «il lavoro non è un diritto». Chi ha votato per cancellare l’articolo 18 e istituzionalizzare la precarietà con il ricco menù di 46 forme contrattuali diverse farebbe meglio a non scandalizzarsi per le parole rivelatrici del ministro Fornero: quelle parole sono le loro, quella politica che fa carne di porco dei diritti conquistati con il sudore e il sangue di intere generazioni di lavoratori è la loro politica. Ci sono questioni di fondo che dividono in due, o si sta di qua o si sta di là, tertium non datur. A, B e C stanno di là. Saranno sicuramente soddisfatti, però, della precisazione ministeriale secondo cui non è «il lavoro» ma «il posto di lavoro» a non essere un diritto. I giornalisti, si sa, capiscono interpretano e riferiscono sempre male.
Il presidente Monti, apprezzato da Obama, Merkel e Hollande finalmente potrà portare al vertice europeo di oggi un grande risultato quando orgogliosamente depositerà sul tavolo comunitario lo scalpo della democrazia sindacale italiana. Detto senza mezzi termini, cosa gliene frega all’Europa, al mondo, ai mercati, alla finanza e allo spread della cancellazione dell’articolo 18? O qualcuno pensa davvero che alle nostre frontiere si precipiteranno le multinazionali straniere per andare a investire a Casal di Principe, o che la Fiat rinuncierà a scappare dall’Italia come i ladri di notte dai caveau delle banche svaligiate?
Allora, a che cosa è servito stravolgere l’intero impianto dei diritti del lavoro senza che ciò crei un solo occupato in più? Che ce ne facciamo di tanta precarietà in entrata se non c’è un luogo in cui entrare? E perché rendere ancora più facile l’espulsione dal lavoro, contestualmente all’allungamento dell’età lavorativa fino a 67-70 anni? La risposta è molto semplice: si voleva riconsegnare tutto il comando all’impresa, cancellando i contrappesi che tutelavano i più deboli dalla prepotenza dei più forti. Il posto di lavoro non è più un diritto ma un’arma caricata - e non a salve - nelle mani del capitale. Perché mai le vittime di questo scempio dovrebbero domani votare per chi ieri ha votato in Parlamento per ridurle in uno stato di semischiavitù? E perché mai queste vittime dovrebbero sentirsi rappresentate sindacalmente da chi non ha voluto mettere in campo neppure uno sciopero generale?
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