Gianfranco Sabattini
Prima Alessandro Orsini, poche settimane fa Saviano si sono imprudentemente avventurati su un terreno per loro scivoloso, e cioè nella critica dell’opera di Gramsci e nella comparazione del pensiero di Gramsci e Turati, giungendo alla conclusione che il grande sardo non è stato un campione di libertà. Sul tema, con ben altro spessore, si è cimentato Luciano Canfora con un volume, qui recensito da Gianfranco Sabattini.
Di recente Luciano Canfora ha dato alle stampe un nuovo libro dal titolo di per sé eloquente: Gramsci in Carcere e il fascismo. Non è possibile capire se il libro, nel quale la narrazione avviene in termini filologici stringenti e coinvolgenti, sorretta da un’erudizione che non è dato rinvenire nei libri recenti a volte polemici sulla vita carceraria del pensatore sardo, vuole essere una confutazione delle interpretazioni della sua “conversione” al tema della libertà durante il suo soggiorno in carcere; oppure se vuole sottolineare la “sottile”strumentalizzazione del pensiero libertario di Gramsci effettuata dal PCI impegnato, dopo il ritorno alla democrazia dell’Italia, nella transizione “dal solco del leninismo…nella socialdemocrazia distaccandosi dalla quale il partito era sorto”.
Se, come osserva Canfora, la libertà è uno dei temi centrali dell’opera di detenuto di Gramsci, costituita dal corpus delle Lettere e dei Quaderni, studiata “nel concreto e conflittuale suo dispiegarsi e inverarsi nelle lotte degli uomini”, ma anche nel suo aspetto di forza interiore che spingeva Gramsci a continuare a combattere, senza alcuna genuflessione nei confronti dei suoi carcerieri, per liberarsi dalla pena inflittagli dal tribunale speciale fascista. Giustamente Canfora osserva che la testimonianza che le Lettere ed i Quaderni offrono della lotta che Gramsci ha intrapreso per la libertà fino all’ultimo dei suoi giorni costituisce l’evento intellettuale più rilevante del Novecento italiano, sino al punto da “costituire “opera non effimera” ma opera classica “destinata a durare” e ad essere letta da tutti. A questo punto sorgono spontanee due domande. E’ plausibile che le riflessioni gramsciane sulla libertà siano ancora conservate all’interno di un “recinto di convenienza”, solo per giustificare l’evoluzione storica di un Partito che in qualche modo aveva contribuito ad “inguaiarlo” e che ha fatto del pensiero libertario di Gramsci solo uno strumento tattico per una sua legittimazione all’interno della storia nazionale? Non si compie, in tal modo, uno svilimento del pensiero gramsciano, negandone la sua valenza universale?
Per ricuperare il pensiero di Gramsci alla cultura del mondo, senza sconto o riduzioni, occorre invece considerarlo dal punto di vista del suo contributo alla definizione di una compiuta democrazia sostanziale, coniugando il concetto di libertà a quello di egemonia. L’uso del concetto gramsciano di egemonia nella spiegazione del modo di operare delle istituzioni proprie di un sistema sociale caratterizzato da procedure decisionali democratiche può sembrare un non-senso. Ciò perché il concetto di egemonia nelle analisi ideologiche marxiste è interpretato come lo “strumento” per la cui acquisizione i gruppi sociali subalterni lottano allo scopo di mettere fine al loro sfruttamento. In questa prospettiva interpretativa la dinamica sociale non implica tanto la sostituzione dell’egemonia del gruppo egemonizzato all’egemonia del gruppo egemone, quanto la traduzione dell’egemonia stessa in “egemonia del proletariato”, come garanzia di una democrazia sostanziale. In questo senso, l’acquisizione dell’egemonia non significa un’”alternanza” dei gruppi sociali nell’esercizio del potere egemonico, ma il suo assolutizzarsi in uno solo dei gruppi antagonisti.
Una lettura coordinata delle diverse parti degli scritti gramsciani contenuti nei Quaderni, nei quali è trattato l’argomento dell’egemonia consente di inferire una interpretazione del pensiero gramsciano sull’argomento stesso del tutto alternativa a quella di natura ideologica. Per capire il significato che il concetto assume in questo contesto, occorre partire dalla definizione che Gramsci assume di società civile, intesa come l’insieme degli organismi privati intermedi che si collocano tra i diversi gruppi sociali e la struttura istituzionale dello Stato.
Gramsci deriva il metodo di governo democratico dei rapporti tra i gruppi antagonisti inferendolo dalla forma in cui si svolge tra loro il rapporto egemonico. Esiste democrazia nel modo di operare delle istituzioni pubbliche quando è garantita la possibilità del passaggio dei componenti dei singoli gruppi da quelli diretti a quello dirigente. Fatto quest’ultimo che lega la democrazia stessa al pluralismo politico della società civile, trasformando l’esercizio del rapporto egemonico in un “governo delle differenze”.
Questa conclusione trova il suo fondamento nella necessità che l’esercizio dell’egemonia avvenga in modo socialmente equilibrato sul piano distributivo; questa è la condizione perché la democrazia e l’evoluzione del sistema sociale non siano compromesse dal fallimento dell’azione dei gruppi dominanti. Se ciò accadesse, la democrazia potrebbe sfociare o in una sua disarticolazione, oppure nel suo superamento in una qualche forma di cesarismo. Sia nell’uno che nell’altro caso, a subirne il “costo” sarebbero tutti i gruppi che compongono il sistema sociale, non solo i gruppi sino ad allora egemonizzati, ma anche i gruppi sino ad allora egemoni. E’ questa la lezione della quale dovrebbero far tesoro quanti, tra coloro che appartengono ai gruppi egemoni preferiscono, nel pieno di una crisi che il Paese stenta a superare, tutelare ciò che hanno accumulato avvalendosi di uno scudo cesaristico o tecnocratico, anziché legittimarlo con una più equilibrata partecipazione alla ripartizione dei costi per il superamento del momento attuale.
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