Gianfranco Sabattini
Dall’anno scorso i giornali stanno dedicando ampio spazio alla crisi del mercato immobiliare degli USA. La maggior parte degli interventi ha però sorvolato sulle procedure finanziarie attraverso le quali si è giunti alla crisi dei cosiddetti “sub-prime mortgage” (alla lettera, mutui ipotecari ad alto rischio). Per comprendere i reali motivi della crisi, ci si deve riferire al mercato immobiliare statunitense, all’interno del quale, sin tanto che il rapporto tra banca e prenditore ha conservato la natura di rapporto diretto, sono stati tradizionalmente esclusi i mutuatari ad alto rischio; ciò ha consentito che alla minima percezione del rischio di insolvenza, la banca non esitasse a ricorrere ai ripari per salvaguardare la conservazione del proprio equilibrio finanziario.
I due elementi che hanno allentato il rapporto diretto tra banca e prenditore sono stati il basso livello del tasso ufficiale di sconto della Banca di emissione americana, che ha reso possibile un’ampia disponibilità di liquidità, e l’espansione del mercato dei derivati (titoli di credito di solito privi di riferimento ad una qualche operazione reale). L’ampia disponibilità di liquidità ha spinto le banche ad aprirsi al 10% dei potenziali mutuatari del mercato immobiliare, tradizionalmente esclusi dai prestiti bancari, concedendo loro mutui a basso costo con il rinvio del ricupero della differenza tra il tasso di interesse corrente ed il tasso sulle prime rate dei mutui concessi ai trenta anni successivi. In tal modo, confezionando mutui su misura per i clienti meno abbienti, ha avuto inizio negli USA un boom del mercato immobiliare, per cui in caso di insolvenza è stata facile la soluzione fondata sulla vendita della casa per un prezzo molto più alto di quello iniziale (pari a quello del mutuo) e con il ricavato rimborsare il mutuo ed iniziare una nuova operazione immobiliare. Questo automatismo è stato anche stimolato dal mercato dei derivati che ha consentito di sollevare le banche mutuanti dalle possibili insolvenze dei lori clienti, mettendo insieme (impacchettando) i titoli rappresentativi dei mutui con altri debiti meno rischiosi. Tutto ciò, con la regia delle agenzie di rating, che, anziché agire al servizio dei risparmiatori, hanno agito, invece, al servizio dei gestori di fondi di investimento contenenti anche titoli ad alto rischio di insolvenza. Così è stato finché la mano invisibile del mercato ha fatto precipitare i valori dei beni immobiliari il cui mercato nel frattempo si era saturato.
Il crollo del mercato immobiliare ha espanso le insolvenze mandando in bancarotta i fondi di investimento e mettendo in stato di instabilità le borse valori di tutto il mondo. Di chi è la colpa? Dei risparmiatori “ingenui”, oppure delle banche “imbroglione”? La colpa è del conato di neoliberismo che, in assenza di un’efficace regolazione dei mercati, è valso a scatenare, sotto forme diverse rispetto al passato, i tanto deprecati animal spirit di keynesiana memoria. A sostegno dell’”esproprio con destrezza” operato dalle banche “imbroglione” ai danni dei risparmiatori “ingenui” non serve evocare l’aforisma di J.Kenneth Galbraith, secondo il quale il bello del capitalismo starebbe nel fatto che in esso ogni tanto vi succede qualche evento che serve a separare il denaro dagli “ingenui”. Ovviamente, preso alla lettera e fuori contesto, l’aforisma degrada a gag di pessimo gusto sino a cessare di esprimere ciò che con esso Galbraith intendeva esprimere, ovvero la necessità che il mercato sia sempre messo nella condizione di consentire la cosiddetta “contendibilità dei fattori produttivi”; infatti, all’interno di un mercato ben regolato e reso trasparente dall’assenza di qualsiasi tipo di asimmetria informativa, attraverso l’istituto del fallimento, gli “imbroglioni” (banche e qualsiasi altra forma di attività imprenditoriale) sono separati dal “capitale residuo” (pari al valore monetario di tutto ciò che resta dopo la liquidazione fallimentare) perché esso, nell’interesse di tutti, possa passare di mano e possa essere gestito da imprenditori “onesti” ed efficienti.
Ma all’interno di mercati non ben regolati e resi opachi da asimmetrie informative, diventa facile, come è accaduto nel caso della crisi del mercato immobiliare degli USA, il consolidarsi della presenza di operatori “imbroglioni”, i cui comportamenti separano i mezzi monetari dagli “ingenui”, resi tali però col raggiro e la disonestà. Sino a che tutte le cause del cattivo funzionamento dei mercati non sarà rimosso, le crisi delle borse valori, che, com’è noto, costituiscono i mercati monetari di medio-lungo periodo, anziché contribuire al miglioramento dei comportamenti degli operatori, servono solo a diffondere ulteriormente le condizioni perché le crisi si susseguano sempre più frequentemente in forme sempre più gravi e sempre più dannose per i presunti risparmiatori “ingenui”.
E’ proprio quello che sta accadendo; a più di un anno dallo scoppio dello scandalo dei mutui americani, la crisi da essi indotta sta per diffondersi a livello mondiale in termini più generali e non solo bancari. Secondo Niall Ferguson (Corriere della Sera del 19 agosto), attento osservatore dei problemi connessi al processo di globalizzazione delle economie nazionali, i prezzi delle case nel mercato immobiliare americano stanno crollando ad un ritmo tale per cui si prevede che ben 6,5 milioni di mutui cadranno in pignoramento, sino a rappresentare più di un decimo di tutti i prestiti ipotecari americani. Ora, secondo Ferguson, la domanda è se la crisi dei mutui americani possa originare una frenata dell’economia mondiale. Esisterebbero, per Ferguson, almeno quattro ragioni per credere che l’impatto negativo della crisi dei mutui possa “contagiare” anche l’economia mondiale.
Innanzitutto, perché la crisi riguarderà anche l’Europa, che, in ragione anche del rafforzamento dell’euro, registrerà in futuro una crescita più lenta di quella americana; il rallentamento della crescita, inevitabilmente, sarà seguito da una contrazione delle esportazioni americane verso l’eurozona. In secondo luogo, perché l’aumento del prezzo delle materie prime, alimentato dalle pressioni inflazionistiche, originerà disordine ed instabilità economica all’interno dei paesi più deboli integrati nell’economia mondiale. In terzo luogo, perché, le due ragioni precedenti spingeranno gli stessi paesi più deboli e più esposti agli esiti negativi della crisi dei mutui a restringere l’area del libero scambio dal quale il processo di globalizzazione è alimentato. In quarto luogo, perché la crisi dell’economia americana si farà sentire all’interno dei paesi dipendenti dalle esportazioni cinesi; queste infatti sono destinate a contrarsi a causa dei ridotti aiuti americani a quei paesi, possibili solo se la Cina riesce con le esportazioni ad accumulare gli accreditamenti sull’estero coi quali finanziare il debito pubblico degli Stati Uniti. Secondo Ferguson, non siamo alla vigilia di una Grande Depressione del tipo di quella occorsa nel secolo scorso; tuttavia, come negli anni Trenta del secolo scorso, la fase acuta della crisi non è quella d’oltreoceano, ma quella che si avrà non appena essa si sarà generalizzata all’intera economia mondiale.
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