Gaetano Azzariti
Nello scorso mese la “grosse koalition”, che sorregge Monti, ha manomesso la Costituzione, introducendo, senza dibattito e senza possibilità di referendum, il principio del pareggio di bilancio. Ha così costituzionalizzato un criterio economico criticabile e fortemente criticato da una buona parte dei grandi economisti a livello mondiale, fra i quali ben cinque Nobel. E’ il principio che sta alla base delle attuali politiche recessive. Ora la “grande” maggioranza ci vuole riprovare, toccando il delicato meccanismo del bilanciamento dei poteri. E’ un tentativo maldestro e pericoloso, che sta passando sotto silenzio e su cui è importante prendere posizione. Ecco perché ci sembra utile pubblicare sulla questione questa riflessione di un autorevole costituzionalista, apparsa sul Il Manifesto di ieri.
In attesa della tempesta che si abbatterà su di loro alle prossime elezioni e incapaci di autoriformarsi, i partiti politici pensano di poter nel frattempo cambiare la Costituzione. I tre partiti maggiori si sono fatti predisporre un testo da alcuni esperti e ora vogliono farlo approvare senza una reale discussione, confidando su una stampa distratta e un’opinione pubblica anestetizzata dalla crisi economica.Una rocambolesca corsa contro il tempo per giungere con lo scalpo della Costituzione alle prossime elezioni e dimostrare così di essere ancora vitali: se si è in grado di cambiare la Costituzione si potrà ben governare, pensano i nuovi apprendisti stregoni. Ispirati dalla riforma bulgara del pareggio di bilancio, ora si vuole alzare la posta e l’ambizione diventa quella di modificare l’intero assetto dei poteri.
Siamo al paradosso. Come può, infatti, immaginarsi che un ceto politico agonizzante, commissariato da tecnici ai quali ha delegato il potere di governo, possa mettere le mani sulla Costituzione?
Denunciamolo apertamente: i partiti politici che sostengono l’attuale governo Monti non sono legittimati a cambiare la Costituzione. Non sarà lo specchietto per le allodole della riduzione del numero dei parlamentari a giustificare un’operazione delirante (”delirante” nel senso etimologicamente proprio di superamento di un confine invalicabile). Quali prospettive costituzionali possono garantire delle formazioni politiche in preda al panico, disorientate dalla perdita di consenso, palesemente inadeguate a svolgere l’ordinaria attività d’indirizzo politico. Le costituzioni definiscono meccanismi di “governo degli altri” complessi e delicati che non possono essere poste nelle mani di chi in questo momento - per dirla con Michel Foucault - non ha il «governo di sé».
Non si dovrebbe neppure cominciare a discutere. Ma se - con uno sforza di volontà - si va poi a vedere il contenuto della riforma ai dubbi espressi si collega anche il timore di un’operazione che ha tutto il sapore di voler garantire la continuità del peggio. Ancora si vuole rafforzare il governo (con corsie preferenziali e voti bloccati per l’approvazione dei suoi provvedimenti), ridurre il ruolo del Parlamento (il quale rischia lo scioglimento se vota contro l’esecutivo). Come se nulla fosse successo, si prosegue una strategia di umiliazione della rappresentanza politica sostituita dalla retorica della governabilità. Un suicidio per tutte quelle forze politiche che vogliono conservare la loro natura di strumento di partecipazione dei cittadini. È proprio questo il compito che la costituzione assegna ai partiti, ma questi sembra l’abbiano scordato.
Così come sembra proprio non si voglia ricordare quel che è la regola aurea che dovrebbe presiedere ogni sforzo di razionalizzazione della nostra forma di governo. Eppure lo sanno anche gli studenti di giurisprudenza che è l’equilibrio tra poteri quel che vale a distinguere una forma di governo democratica da una dispotica. Quante volte s’è denunciato il pericolo di uno sbilanciamento a favore dell’esecutivo, uno squilibrio che ha contrassegnato il premierato assoluto dei governi degli ultimi anni. Quando in passato si sono tentate di imporre revisioni della costituzione che fissassero nella nostra legge fondamentale simili preoccupanti alterazioni, i costituzionalisti e la cultura democratica hanno riempito le piazze e alzato le barricate. Oggi è assordante il silenzio dei tanti esclusi, traumatizzante il consenso dei pochi prescelti. Nessuno dovrebbe approfittare del sonno della ragione cui siamo caduti per generare il mostro.
D’altronde, i nostri parlamentari e i partiti sino a ieri maggiormente rappresentativi avrebbero ben altro cui pensare. Dovrebbero riuscire a ritrovare la parola smarrita della politica, salvare un sistema della rappresentanza che rischia di trascinare nel baratro - con loro - tutti noi, riallacciare un dialogo con i soggetti e le formazioni sociali che operano all’esterno dei partiti e fuori dai palazzi. Questioni di fondo, cui è legata la sopravvivenza della democrazia, che non investono il piano costituzionale, bensì quello delle culture politiche e istituzionali. È questo oggi il vero terreno dello scontro politico, ma proprio su questo si registra il massimo di confusione, come dimostrano le oscillazioni e i piccoli opportunismi che dominando le discussioni sull’unica riforma effettivamente necessaria: quella del sistema elettorale.
Prima di poter cambiare la Costituzione è essenziale che si modifichi la legge elettorale. È su questo che si dovrebbero confrontare i partiti in questo squarcio di legislatura per cercare di recuperare l’onore perduto. Poi, fatte le elezioni, si vedrà. Se emergerà un ceto e formazioni politiche rappresentative degli interessi sociali reali, questi potranno riprendere il discorso sulle modifiche istituzionali e costituzionali. Ma sino ad allora, per favore, giù le mani dalla Costituzione.
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