Gallino: lotta di classe e capitalismo trasnazionale

13 Maggio 2012
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Gianfranco Sabattini

Torniamo sulle riflessioni di Luciano Gallino e gli stimoli che esse offrono al dibattito con questo intervento dell’economista Gianfranco Sabattini.

Secondo quanto esposto da Luciano Gallino in un recente libro-intervista (La lotta di classe dopo la lotta di classe), nell’attuale fase di integrazione mondiale dei sistemi sociali capitalistici sarebbe in corso una contrapposizione più dura che mai tra coloro che al momento appaiono come “vincitori” e quanti invece appaiono come “perdenti”. Nella contrapposizione, i vincitori perseguirebbero l’obiettivo di limitare il rafforzamento del contropotere dei perdenti. Strumentale a ciò sarebbe la redistribuzione del reddito globale dal basso verso l’alto mediante una appropriata attività legislativa.
I vincitori riuscirebbero così a sfruttare la globalizzazione non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico. Sino al punto che i vincitori avrebbero “tolto di mezzo” le basi materiali dell’esistenza stessa dei perdenti; nel senso che le fabbriche sarebbero state rimosse pressoché completamente dai luoghi in cui la coscienza di classe di questi ultimi era inizialmente maturata. Non solo. I vincitori avrebbero anche condizionato, secondo modalità diverse, i governi nazionali, orientandoli ad adottare politiche pubbliche di austerità che avrebbero preso la forma di tagli crescenti e continui dello Stato sociale a danno prevalentemente della classe dei meno abbienti.
La situazione che si sarebbe determinata configurerebbe così un “grande conflitto sospeso”, in quanto i perdenti, malgrado la loro numerosità, non riuscirebbero a “dare corpo” ad un soggetto politico capace di rappresentarli adeguatamente. Un risultato che sarebbe riconducibile ad un progressivo impoverimento della politica, sempre più schiacciata dall’ideologia e dalla pratica del neocapitalismo.
Dando spazio a queste considerazioni, Gallino aggiunge però che un fatto nuovo potrebbe comunque manifestarsi. Seppure in un momento in cui nessuno sembra ergersi a difensore dei perdenti, potrebbe avvenire che siano proprio questi ultimi, nella forma di movimenti spontanei di vario genere e composizione, a riuscire a colmare il vuoto, così da reinventare un nuovo rapporto con i partiti tradizionali. Anche perché gli stessi partiti, per rimettersi in condizione di “pensare ed agire”, potrebbero trovare conveniente accogliere istanze e idee dei movimenti.
Il libro di Gallino è suggestivo. Ma l’impressione che se ne trae è che lamenti eccessivamente la perdita degli assetti produttivi e sociali del passato e che, in difesa dei perdenti, si limiti a proporre l’esigenza di un rinnovato rapporto con la classe politica per arginare gli esiti negativi dei mutamenti del sistema produttivo. In altri termini, le tesi esposte nel libro sembrano convergere verso una prospettiva in qualche modo angusta e per di più simile a quella che solitamente caratterizza il modo di pensare e di agire dei partiti politici tradizionali, i quali continuano a conservarsi in orizzonti economici, istituzionali e sociali totalmente superati dall’esperienza. Ciò accade perché i partiti mancano di considerare i mutamenti intervenuti nella struttura del processo produttivo con la mondializzazione delle economie nazionali.
La mondializzazione ha causato un assottigliamento della forza lavoro occupata, trasformando la disoccupazione di massa da elemento congiunturale in fenomeno strutturale. Un mutamento profondo che, al contempo, ha prodotto un aumento della ricchezza disponibile che ha avvantaggiato quanti oggi appaiono come vincitori. In questo quadro è emersa una società fondata, non più sull’eguaglianza dei diritti dei cittadini rispetto al lavoro, ma sulla diversità della loro condizione occupazionale, che in sostanza priva chi perde il posto di lavoro della possibilità di accedere ad un’adeguata fonte di reddito.
L’irreversibilità della condizione di disoccupati strutturali oggi si pone come un problema largamente irrisolto e, soprattutto, come una situazione che non sembra potersi “flessibilizzare” in termini soddisfacenti con la salvaguardia del tradizionale Stato sociale, sia pure riformato. Gli interessi dei perdenti potrebbero però trovare soddisfazione. Ma serve una riforma strutturale del mercato del lavoro, pienamente coerente con i mutamenti intervenuti nel sistema produttivo. Non si tratta di una meta facilmente raggiungibile. Occorre un dibattito più ampio e maturo di quello che si è sinora profilato. E soprattutto più aperto a valutare l’opportunità di una governance dell’economia mondiale basata su due politiche interconnesse: l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza incondizionato a tutti coloro che vengono “espulsi” involontariamente dalla loro occupazione e la ridistribuzione della ricchezza concentrata prevalentemente nella classe dei cosiddetti vincitori. Sembra questo l’unico percorso in grado di rimuovere la grande resistenza delle classi politiche odierne a riformare pienamente antiche e obsolete istituzioni economiche e sociali.

1 commento

  • 1 RENATO MONTICOLO
    13 Maggio 2012 - 22:22

    La nascita e lo sviluppo dei partiti e dei sindacati hanno storicamente coinciso con i progressi della condizione operaia nei vari centri di produzione dei beni materiali.
    L’operaio scopriva e trasmetteva ai suoi datori di lavoro la consapevolezza che la forza lavoro era un elemento imprescindibile per la crescita della produzione di beni e di ricchezza . L’operaio e i suoi rappresentanti erano i vincenti di una battaglia che si era andata svolgendo nell’Europa industrializzata.
    Ma in quel periodo l’equazione tra ricchezza e beni prodotti era direttamente proporzionale anche se legata poi al mercato e quindi ad una maggiore o minore rendita variabile con la richiesta e l’offerta , comunque misurabile e controllabile con strumenti “umanamente” gestibili.
    Oggi la ricchezza appare svincolata da qualsiasi produzione “tangibile” e quindi l’operaio soggetto e attore principe del processo produttivo non ha più gli strumenti o le armi che dire si voglia per combattere il suo “nemico” naturale, il padrone-datore di lavoro , specie nella miriade di piccole e medie imprese che caratterizzano il tessuto produttivo italiano. Ora, come lui, è un perdente che combatte sul fronte della liquidità finanziaria che altri, i nuovi vincenti, gestiscono aprendo o serrando il vitale rubinetto , facendo letteralmente “seccare” chi, e sono molti,non possiede le risorse necessarie.
    Ora tra le modifiche che la politica, quella buona e costruttiva, dovrebbe porre in essere appare essenziale la regolamentazione dei flussi finanziari speculativi.
    Chiunque oggi, dotato dei necessari strumenti informatici, di una esperienza essenziale, di molta spregiudicatezza e di una buona dose di fortuna può “giocare in borsa”.
    Non sono richiesti grossi capitali e nel “gioco” , la parola la dice lunga, si possono fare grossi guadagni , fermi i requisiti prima esposti , ma causare ferite mortali all’economia di un paese. Perché non introdurre una tassazione sulle transazioni? Perché non riportare l’asse dell’economia sul terreno concreto della “roba” di verghiana memoria?

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