L’attacco alla politica mira alla morte della democrazia

11 Aprile 2012
1 Commento


Andrea Pubusa

Da tempo siamo in presenza di un attacco su scala planetaria alla democrazia. Nelle aree estranee al costituzionalismo occidentale, non c’è bisogno di alcuna particolare azione. In questi Paesi anzi si parla di guerre per la democrazia o a fini umanitari, per giustificare forme nuove di colonialismo o d’influenza legate al controllo delle vie del petrolio o del gas. E così autocrati, insediatisi al potere con l’appoggio occidentale e americano, sono stati abbattuti quando hanno preteso di gestire autonomamente le loro risorse. Saddam Hussein e Gheddafi ne sono l’esempio più manifesto. Ma tutto il sommovimento nell’altra sponda del Mediterraneo dello scorso anno ha - a ben vedere - questa valenza. Con colpi bassi anche fra paesi europei. La Francia e l’Inghilterra hanno così invaso la Libia, in barba al Cavaliere, che ha visto sottrarre all’Italia un’interlocuzione energetica privilegiata.
Nulla di nuovo, dunque, se non la riproposizione, in forme e con slogans aggiornati, del dominio delle potenze occidentali, che oramai temono l’espansione possibile della Cina alla ricerca di immense quote di energia per la sua economia.
Il dato più preoccupante è l’attacco alla democrazia in Europa. Se, senza infingimenti, si osservano le istituzioni dell’UE si rileva che del costituzionalismo occidentale in essa non è presente alcun elemento, neppure il principio di bilanciamento dei poteri. I decisori sono organi, apparentemente tecnici, privi d’investitura popolare, che, proprio, per questo hanno avviato una delle più organiche reazioni al keyesismo, ossia a quel pensiero economico che dal New Deal rooseveltiano ai primi tre decenni del secondo dopoguerra ha caratterizzazato i Paesi occidentali, dando luogo alla più profonda redistribuzione della ricchezza e diffusione del benessere, mai conosciuto prima dall’umanità. Il risvolto istituzionale del keynesismo sono state le grandi Carte dei diritti e le Costituzioni nate dopo il 1945, prima fra tutte la nostra.
Non è un caso che al neoliberismo in economia abbia corrisposto una tendenza all’autocratismo nelle istituzioni. Presidenzialismi non bilanciati, inventati a tavolino, premi sproporzionati di maggioranza, parlamenti - come il nostro - apparentemente eletti, in realtà nominati dall’alto, sono i frutti velenosi di questa stagione.
L’enorme concentrazione della ricchezza in poche mani ha poi determinato un monopolio dei media, che punta a rendere irreversibili le politiche neoliberiste e la deriva istituzionale antidemocratica. Di più e peggio: tende a impedire una critica organizzata al capitalismo.
Anche la campagna anti-politica e anti-partito di questi giorni ha questa regia e queste finalità. Certo, è innegabile che l’attuale sistema di finanziamento dei partiti presenta lacune e si presta ad abusi. E gli abusi sono sotto gli occhi di tutti impietosamente. Si stampa in volti e personaggi impresentabili, da Lusi a Belsito ai due Bossi alla Mauro. Tuttavia, il risvolto possibile di questo attacco ai partiti sarà la riconduzione della politica nell’alveo del capitale. Come nelle società predemocratiche, solo chi ha enormi ricchezze potrà fare o finanziare la politica. Controllerà - come in gran parte già oggi - i simulacri dei parlamenti, gestirà i media e formerà così il senso comune e l’opinione pubblica. Già oggi esistono molti segnali in questa direzione. Monti, che è espressione di questo blocco di potere e di pensiero, spaccia per riforma un attacco feroce e squisitamente ideologico al mondo del lavoro, con lo svuotamento dell’art. 18. E lo fa con l’approvazione della maggior parte dei partiti e - ma di questo c’è  da dubitare - col consenso della maggioranza degli italiani, anche di quelli che da queste misure subiscono il maggior pregiudizio.
So che molti storceranno il naso, ma il messaggio di ripulire la politica non finanziandola mira a creare nelle istituzioni quel monopolio del grande capitale che nei media si ottiene togliendo l’aria, uno dopo l’altro, ai quotidiani che muovono una critica serrata e intelligente al sistema capitalistico e alle sue forme attuali. La chiusura di Liberazione e quella (probabile) del Manifesto sono esempi di questa guerra vittoriosa del grande capitale che non fa prigionieri e vuole solo lo sterminio di tutto ciò che ne critica le feroci tendenze attuali. Se pensate che fino a 40 anni fà esistevano in Italia due grandi partiti storici della sinistra e che attorno a loro c’era una vasta rete di organizzazioni e di mezzi d’informazione in tutti i settori della società, risulterà chiara la deriva che la vita democratica ha subito. Ora, in effetti, siamo agli sgoccioli, siamo al finale di questa partita e non s’intravedono argini consistenti. Non bastano la rete o i movimenti per quanto generosi. Occorrerebbe una grande organizzazione all’altezza. Ma queste sono già state disarticolate.
Dire che la politica può essere una cosa seria e che finanziarla in modo appropriato è un modo per non asservirla al grande cappitale, sembra un’eresia. E questo vi mostra quanto flebile sia ormai la difesa che possiamo opporre alla modifica non solo materiale dell’assetto costituzionale  nato dalla Resistenza. 

1 commento

  • 1 michele podda
    11 Aprile 2012 - 17:46

    Caro Direttore,
    leggendo il tuo articolo, che condivido appieno, c’è da sentirsi davvero piccoli piccoli, tanto che qualunque possa essere il giudizio sul finanziamento o meno della politica, ci si ritrova comunque impotenti contro il malaffare e, come dici tu, contro il grande capitale.

    Per di più nella conclusione tu stesso getti la spugna, quando affermi che anche una possibile “grande organizzazione all’altezza” è stata in varie occasioni “disarticolata”, ed è di fatto dunque irrealizzabile.

    Che si dovrebbe fare, allora?

    Forse si potrebbe tornare alle “piccole organizzazioni”, che potrebbero essere i Comuni, attraverso i quali la gente, i cittadini, il popolo possa avere ancora voce. E solo rappresentanze dei Comuni dovrebbero insieme governare porzioni di territorio o intere Regioni, come la Sardegna, in un corretto dialogo, confronto, interscambio.

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