Quel partito, il PD, nato senza parole

4 Aprile 2012
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Carlo Dore jr.

C’è un immagine che meglio di ogni altra descrive le lacerazioni prodotte sul PD dai progetti di riforma del mercato del lavoro elaborati dal Governo – Monti: quella di Bersani che attraversa a capo chino la bouvette di Montecitorio, spargendo amarezza sui microfoni della stampa parlamentare. “Se devo concludere la vita dando l’OK alla monetizzazione del lavoro, io non la concludo così. Non lo faccio: per me una roba inconcepibile”.
L’amarezza di Bersani sgorga dalle troppe contraddizioni di un partito mai con-diviso ma eternamente diviso: diviso tra componente labour e componente liberal; diviso tra l’esigenza di tutelare i diritti conquistati dai lavoratori in decenni di battaglie democratiche e l’esaltazione del freddo rigorismo montiano; diviso tra l’algido moderatismo che ispira i teorici della “grande coalizione” e l’infuocato grido di dolore che promana dalle avanguardie sindacali.
L’amarezza di Bersani dilaga, insieme ai dubbi degli elettori, alle prese con mille interrogativi quotidianamente rilanciati da blog e social network: il governo Monti rappresenta davvero “l’atto fondativo del PD” o costituisce solo una soluzione d’emergenza giustificata dalla necessità di offrire al Paese un riparo contro le intemperie di Sua Maestà il Mercato? Il PD si identifica nelle posizioni del socialdemocratico Fassina o dei mo-dem Letta e Fioroni? Dove va e con chi va il PD? Ma soprattutto: che cos’è il PD?
Bersani cerca una risposta convincente per questa batteria di domande in libera uscita, con la serena cocciutaggine del dirigente formato dalla vecchia scuola della sinistra italiana. Tra Parigi e Bruxelles, tratteggia con i leader delle altre famiglie progressiste del Vecchio Continente un nuovo modello di Europa: il modello di un’Europa più giusta e più solidale, capace di superare la crisi senza ricorrere all’ennesimo bagno di sangue. E fa i conti, giorno dopo giorno, con la scomparsa delle parole: quelle parole messe in cantina nella stagione del partito-gazebo, con Veltroni leader e Calearo capolista nel nord-est, quando il Lingotto sembrava l’inizio del New Deal e Marchionne veniva esaltato come il perfetto prototipo dell’industriale democratico.
Quante parole sono sparite in quella sciagurata stagione? Quante volte le parole “sinistra”, “diritti”, “giustizia sociale”, equità”, “sindacato” sono state descritte come il vuoto retaggio di una stagione morta e sepolta, da archiviare attraverso le plastificate circumlocuzioni che scandivano l’epoca del “ma-anchismo”? Il PD è nato così: come un partito senza parole.
Ma ora che Veltroni limita le sue sortite a qualche lenzuolata su “Repubblica” e che Calearo aggira i paletti del fisco dall’alto della sua Porche con targa straniera, ora che le luci del Lingotto si sono spente e che Marchionne appare come l’epigono della peggiore razza padrona, la gente per le strade invoca di nuovo quelle parole: “giustizia sociale”, “diritti” “tutele” contro il chirurgico gelo dei tecnici, chiamati a colmare il vuoto lasciato da una politica prossima a cadere nelle spire dell’antipolitica. Ma quelle parole, le parole del PD, le parole della sinistra italiana, sono paralizzate dalla contrapposizione tra componente liberal e componente labour, ostaggio del gioco di veti incrociati che ancora paralizza il partito nato senza parole.
Eppure, di fronte alle istanze di un elettorato sempre più sconfortato, con le primarie trasformate in una bieca resa dei conti tra cacicchi locali e nel trampolino di lancio per onesti professionisti della politica riciclatisi come campioni del civismo democratico, le risposte di Bersani devono arrivare, meglio se attraverso i capisaldi del manifesto di Parigi, meglio se attraverso l’elaborazione di una strategia in grado di rinsaldare i vincoli tra i progressisti europei.
“La monetizzazione del lavoro noi non la accettiamo, la monetizzazione del lavoro per noi è inconcepibile”. Una risposta per risolvere le troppe contraddizioni del partito diviso e mai con-diviso, per evitare che la scelta emergenziale dei tecnici chiamati a governare la bufera lasci stabilmente senza rappresentanza quelle fasce sociali che ancora guardano al PD come al loro interlocutore di riferimento, per evitare che gli ultimi refoli della stagione contrassegnata dalla scomparsa delle parole lascino senza voce il principale partito dei progressisti italiani. Per spezzare una volta per sempre la maledizione del partito nato senza parole.

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