Gianna Lai
Ieri Il Crogiuolo, insieme a BlancaTeatro e Occupazioni Farsesche, ha messo in scena all’Alkestis “DIO, STALIN e ME”, con Rita Atzeri, Antonio Bertusi, Matteo Procuranti, drammaturgia e regia di Virginia Martini.
Ecco la presentazione della rappresentazione degli organizzatori, seguita dalle impressioni a fine spettacolo di Gianna Lai.
In questo paese non si è mai fatta la Rivoluzione.
Eppure più di una generazione ha vissuto nell’attesa, nella speranza, nel sogno di farla. Così tante esistenze sono state spese nel rincorrere l’Idea.
Questo spettacolo, liberamente ispirato al romanzo di Ermanno Rea “Mistero napoletano”, si concentra sulla vicenda umana e politica di Francesca Spada, giornalista dell’ “Unità” e militante comunista, amica e confidente di Renato Caccioppoli, il noto matematico napoletano.
La storia di Francesca grida dolorosamente contro un sistema di pensiero autoritario, ottuso e maschilista riproposto anche dai vertici di un partito, il Partito Comunista Italiano, cui Francesca dedicò ogni risorsa e che diffido’ sempre di lei.
Il partito del progresso e dell’emancipazione riproduceva in se’ le riserve e le condanne che Francesca incontrava nella società degli anni ‘50.
Francesca era una “irregolare”, aveva avuto due figli fuori dal matrimonio da un uomo che le impedì’ per anni di vederli. Poi ne ebbe altri due con il comunista Renzo Lapiccirella, militante scomodo e disobbediente. Entrambi furono emarginati per la loro libertà’ di pensiero e attaccati sul piano personale portandoli fino al completo isolamento . Perfino un abito da sera indossato da Francesca a teatro divenne un capo d’ accusa. Erano gli anni dei nemici del popolo, dell’Ufficio Quadri, dei colloqui a porte chiuse.
All’interno della sinistra italiana, come le vicenda di Francesca, Renzo e Renato ci racconta, si è forse persa una occasione storica: quella di un comunismo non separato dalla libertà, un comunismo tollerante, un comunismo privo di pregiudizi, un comunismo indipendente e autonomo dall’esperienza sovietica.
Il 1954 fu l’anno dello “svelamento”: Stalin nient’altro era che uno spietato dittatore. Fu uno schianto, un fulmine a ciel sereno per milioni di militanti comunisti italiani. L’elusività fu la forma di autodifesa più praticata. Molti, di Stalin, non vollero più nemmeno parlare. Le vite di cui si racconta in “Dio, Stalin e me” si snodano intorno a quel periodo, così difficile per tutti coloro che avevano sperato e lavorato , fin dalla Resistenza, per costruire un paese diverso, un paese migliore.
Noi non c’eravamo, non l’abbiamo vissuto quel periodo. Siamo figli di quella generazione che ha perso il coraggio delle prese di posizione nette, radicali, troppo presi da illusioni collaborative per sfidare accuse di estremismo.
Rubando le parole ad uno dei personaggi ci sentiamo di dire che “la Rivoluzione in questo paese è ancora da fare”.
Ecco ora le impressioni a fine spettacolo di Gianna Lai.
E’ condizione esistenziale quella di Francesca, e di Renato, suicidi per non essere stati accolti, compresi, da un Partito succube di tutti gli stereotipi sociali del tempo, quasi volesse legittimarsi anche di fronte agli occhi di irraggiungibili benpensanti che, anzi, ce l’avevano proprio in odio il Partito. Nel Meridione d’Italia si svolge questa storia che è esemplare di un modo di intendere la convivenza nell’ organizzazione di massa, secondo l’autrice del testo, che sembra fare, in questa pièce teatrale, della burocrazia il suo punto di forza. Ed è molto brava Rita Atzeri nel rappresentare la drammaticità di un’esperienza che, prima del ‘68, prima del femminismo, non rendeva la vita facile alle donne di partito che, pure, da quella esperienza traevano forza per la loro emancipazione, da quella esperienza apprendevano come le masse avrebbero potuto riscattarsi. E’ un grido contro l’omologazione intesa in senso pasoliniano, Pasolini ha inventato il termine, cui attenersi per mantenersi dentro le regole, che induce alla denuncia e alla ribellione, che può ancora oggi lanciare un segnale forte contro le forme odierne dell’oppressione, la stupida pretesa superiorità di chi pretende di esercitare un’autorevolezza che nessuno intende riconoscergli, i nostri governi in primo luogo.
Si alternano nella recitazione i toni dolenti della sofferenza che man man prende il personaggio, fino alla protesta e alla ribellione che lo spettatore sente man mano crescer fino alla presa di coscienza che segna la rinuncia finale, segnata ancora una volta dalla freddezza dell’indagatore che sembra fare ciò che fa perchè gli è stato detto di farlo, non perchè lui stesso ne condivida senso, ne sappia dare spiegazioni. Bravi i due personaggi maschili a rappresentare il senso di questo spaesamento, quando il burocrate interroga come in un qualunque tribunale la donna rea, quando in lingua napoletana e con un senso profondo dell’ironia chi conduce il gioco sollecita a guardare senza essere visto, a riferire ciò che si dice senza ascoltare. Che può indurre a voler del tutto uscire dalla realtà, attraverso l’alcool, nella seconda parte della rappresentazione, che libera energie tali da consentire al personaggio una lucida disanima di un mondo sordo ad ogni umanità. Alla fine è proprio la capacità dei tre attori, in una scenografia spoglia ed essenziale che non consente nulla alla fantasia dello spettatore, nel senso che per un’ora ti senti inchiodato in una storia di ribellione che vorresti si concludesse diversamente, a restituire alla storia tutta la drammaticità del testo. Accompagnato da un inedito e struggente Louis Armstrong che canta Adios amigos compagneros de mi vida, il motivo musicale che apre e chiude la storia, nella sala del teatro Alkestis
0 commenti
Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.
Lascia un commento