Per una discussione sulla Chiesa

14 Marzo 2012
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Mario Cugusi già parroco S. Eulalia - Marina

L’altra settimana a Cagliari, su iniziativa dell’Ass. Miele Amaro, si è svolta un’assemblea su un tema, “Parliamo di Chiesa”,  apparentemente poco attuale, in realtà molto intrigante anche per il nome dei relatori, Mario Cugusi ed Ettore Cannavera. L’incontro è stato molto affollato e il dibattito assai ricco e partecipato, anche per merito della introduzione non rituale e stimolante di Gianna Lai.
Mario Cugusi ci ha gentilmente riassunto la sua relazione, che volentieri pubblichiamo, anche perché costituisce un terreno d’incontro fra tutti gli uomini e donne di buona volontà.

Il teologo tedesco, discepolo e successore di J. Baptisti Metz, Jurgen Werbick, docente di teologia fondamentale a Munster, nella sua opera fondamentale e apprezzatissima “La Chiesa”, sostiene che la Chiesa post-conciliare è nata ricca di tensioni e proprio per questo capace di sviluppo. Credo che questo rapporto dialettico sia simile a quello che intercorre tra dubbio e verità, intesa questa come momento “inverante”, ma ugualmente storico, della ricerca.
Se la Chiesa vuole essere tale, in crescita, non costretta in una ecclesiologia “geometrica” atemporale, è chiamata a vivere davvero questa tensione senza sentirsela come pericolosa. E’ chiamata a viversi non come roccaforte “dogmatica”, cinta d’assedio da nemici armati dalle armi ostili della ragione, talvolta sospettati presenti anche all’interno della “cittadella”, ma come terreno e spazio di dialogo e di confronto, portatrice delle “sue” verità, ma priva di arroganza e autosufficienza. Una Chiesa che “accetta” le sue tensioni non può non essere una Chiesa che mette in conto le “eresie”, che non le scomunica pregiudizialmente, che non dimentica che tutta la storia della teologia è fatta di ricerca (eresia deriva dal verbo greco “aireo”, che significa “ricerco”). Tutto questo significa una visione del dogma come momento “inverante” una certa concezione teologica, condizionata dall’orizzonte concettuale e dagli strumenti linguistici in cui esprime una concezione di fede, sempre frutto del pensiero e della parola umana, non di una comunicazione “astorica” del messaggio di fede.
Il dogma è una sistematizzazione concettuale e linguistica storica che la Chiesa è chiamata a rendere sempre meglio attuale e comprensibile, se non si intende estraniare la fede dalla vita e dal mondo, unici destinatari di essa. E non si può pensare che il rivisitare i dogmi sia “relativismo nichilista”, ma piuttosto impegno a dare loro efficacia per l’inculturazione della fede nel mondo, data per assodata la affermazione del teologo conciliare olandese Schillebeecks, secondo il quale “extra mundum nulla salus”. Si potrebbe anche solo citare la felicissima espressione usata da Giovanni Paolo II, nel suo pellegrinaggio in Terra Santa, sul monte Nebo, quando affermava che “dobbiamo divedere il significato e ruolo del primato petrino”.
I mutamenti teologici appartengono alla storia anche recente della Chiesa: sino a cinquanta anni fa si dava per scontata la “visione beatifica” da parte di Gesù di Nazareth. Implicava una concezione cristologica secondo la quale Gesù era venuto al mondo con la piena consapevolezza del suo destino e di tutto quanto sarebbe avvenuto nella sua vita, anche negli aspetti più episodici di questa, a prescindere quindi da un cammino di crescita umana e di presa di coscienza della sua missione.
Il concetto moderno di “autocoscienza messianica” di Gesù, che gradualmente emerge nella sue scelte e nei suoi pronunciamenti, seppure sia un’ipotesi cristologica in studio, è sostenuta diffusamente come superamento della infondata concezione cristologica della “visione beatifica”. Ovviamente, da Galileo in poi, e soprattutto grazie alla “nuova” progressista teologia protestante e anche a quella avanzata conciliare si è consapevoli della “storicità” della sistematizzazione della fede e la ragione sempre meno è vista come pericolo.
Questo però non ci impedisce di vedere come troppi nella Chiesa, soprattutto esponenti della gerarchia, poco attenti al cammino fatto dagli studi esegetici e teologici, continuano a proporre una ecclesiologia di difesa, di “arroccamento”, con preoccupanti ritorni di apologetica difensiva e ostile. Tutto questo induce verso un processo di “ghettizzazione” della Chiesa, ossessionati dal “relativismo”.
L’insorgere di questo spirito neo-apologetico sta diventando un autentico “seppellimento” delle speranze del Vaticano II e anche un chiaro segnale di un “errore diagnostico” circa le difficoltà nelle quali si trova ora la Chiesa. E’ assolutamente errato pensare che la secolarizzazione sia stata una conseguenza delle riforme conciliari e che la risposta possa essere un’affermazione forte della Chiesa, del suo “apparato” cioè, riaffermazione da ottenere con l’utilizzo di una serie di strumenti funzionali all’organizzazione-Chiesa. Di qui le derive devozionistiche, emozionali e neoconservatrici, accompagnate e sostenute da una spettacolarizzazione della fede con cui si è tentato di nascondere la crisi e le difficoltà di relazione con la post-modernità. Questa “mens”, purtroppo abbastanza diffusa negli operatori pastorali ecclesiali, laici e chierici, induce a comportamenti di diffidenza verso il mondo e di chiusura in una sorta di “apartheid”, con conseguenze gravi anche nella politica, con scelte che implicano la “scomunica” di certi e il collateralismo verso altri, solo verbalmente depositari dei valori cristiani.
Deve essere ben altro lo spirito autenticamente evangelico: punto di partenza non è una visione “ecclesiocentrica”, ma “cristocentrica”, la Chiesa non è o vive per se stessa ma esclusivamente per il Regno; la Chiesa non ha se non una vocazione sacrificale (vedi le metafore evangeliche del lievito e del seme che muore). La Chiesa non è chiamata a ottenere un potere nel mondo ma a “dare carne” all’amore, come Gesù di Nazareth, a difendere la giustizia, testimoniare la misericordia, porsi accanto a chiunque affermi la sacralità della dignità umana, a promuovere il “benessere” delle categorie umane e dei popoli meno forti o “crocifissi” (usando una terminologia cara ai teologi latino-americani della liberazione). Questa è la sola Chiesa che possa ancora “servire” la causa di Gesù di Nazareth.
Non si deve pensare che questo sia il proposito di un gruppo “guerrafondaio” e “partigiano” ecclesiale ma è quanto, in maniera ben più articolata ovviamente, già cinquant’anni fa, affermavano le costituzioni conciliari “Lumen gentium” e “Gaudium et spes”, documenti purtroppo poco conosciuti e presto oscurati da “temi” teologici e ecclesiologici d’altro tipo. La crisi della Chiesa di oggi è davvero crisi di identità e di oscuramento della sua peculiarità evangelica e conciliare.
Come vivere in questa Chiesa? Prima di tutto standoci e direi, parafrasando don Chisciotte, il quale affermava che “per la libertà e per l’onore si può e si deve mettere in gioco la vita”, per il credente tutto questo lo richiede la vocazione battesimale. Riaffermare con energia che la fede la qualifica l’etica o, per dirla con Simon Weil : “la soglia della fede la superiamo con la vita”. Riaffermare con energia che la fede non è devozione e neppure concetto, la fede è relazione, relazione con Dio, da noi conosciuto tramite e in Gesù di Nazareth. Per il cristiano è Gesù di Nazareth il rivelatore di Dio: per il cristiano è il Figlio di Dio, per chiunque può essere visto la “cosa” più bella espressa dall’umanità.
Nella missione di Gesù di Nazareth di “dare carne” alla Parola, al Regno, a tutto quanto “salva”, porta “benessere” al mondo, deve essere il terreno di incontro di chiunque sia animato da “buona volontà”, dalla volontà di bene: la fede di Gesù, più che la fede in Gesù, potrebbe essere il “luogo” dell’incontro. Non v’è dubbio che, se ci fosse volontà sincera da una parte e onesta dall’altra, con comportamenti solo “gesuani” da parte dei primi e davvero “cristiani” da parte dei secondi si lavorerebbe meglio per l’uomo, liberando la Chiesa da una possibile “ghettizzazione” e il mondo laico da immotivate ostilità.

1 commento

  • 1 francesco cocco
    14 Marzo 2012 - 18:33

    Credo che sulla base della riflessione di Mario Cugusi sia possibile superare certe contrapposizioni “costantiniane” proprie del cattolicesimo sino agli anni ‘50 del Novecento. Ricercare il ruolo della Chiesa nel terzo millennio è tema non solo teologico ma politico nell’ accezione più nobile ed ampia . La contrapposizione , e quindi lotta, a certe categorie di dominio (Mario Cugusi è un fulgido esempio di questa resistenza ) è lo strumento per liberarci ( credenti e non) da rimasugli che hanno impedito e continuano ad impedire il dialogo e quindi la ricerca del bene comune. .

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