Francesco Piccioni - Il Manifesto
Lo sciopero generale proclamato dalla FIOM-CGIL per oggi ha un segno decisamente più ricco della sola «vertenza» che le tute blu hanno ingaggiato contro Fiat o Federmeccanica (l’associazione delle imprese del settore, le quali - volenti o nolenti - si sono allineate al «modello relazionale» imposto da Sergio Marchionne). L’impegno - e non da oggi - è diretto a non far chiudere la tagliola contro il mondo del lavoro. Tutto intero. Privato e pubblico, metalmeccanico o bancario.
Da tutta Italia arriveranno un numero ancora imprecisato di pullman. Le cifre sono a loro modo impressionanti, perché si parla di una singola categoria, non certo di tutta la confederazione. 25 da Brescia, 70 dalla Toscana, molti di più dall’Emilia… Anche gli 8 da Chieti, che possono sembrare pochi, a confronto, testimoniano di une partecipazione febbrile.
La partita è alta. Molto «politica», anche se nessuno in Fiom avalla questa interpretazione. Lo è però di fatto. Nessun altro - nel bel mezzo di un «contronto» sulla cosiddetta «riforma del mercato del lavoro» - ha fin qui messo in campo una mobilitazione. Hanno dato una testimonianza i sindacati di base, in gennaio. Poi nulla. Complice l’inverno, certo, e le nevicate eccezionali. Ma di queste cose è fatto il normale conflitto sindacale. Se non ti fai sentire, non ti ascoltano.
In testa alla lista dei punti della piattaforma c’è la democrazia sui posti di lavoro. A chi in questi due anni ha visto crescere il «modello Pomigliano» la cosa è chiarissima. La Fiat di Marchionne ha «cambiato il gioco», a partire dalle regole fondamentali. In fabbrica comanda il padrone - o lo staff manageriale - e chi entra, una volta passato il cancello, ha soltanto doveri. Lì, sulla porta degli stabilimenti Fiat, e fin quando non suona la sirena di fine turno, la condizione di «cittadino» cessa di avere valore. Non puoi sceglierti il sindacato che ti deve rappresentare (e tantomeno rappresentarti in proprio). Non puoi far valere nessuna regola contrattuale a tuo favore, perché l’«accordo» firmato da Cisl, Uil e Fismic non ne prevede alcuna. Non puoi protestare se la catena va troppo in fretta, né rifiutare un turno di straordinario se non ce la fai più.
Questo modello ha fatto strada. Da «situazione irripetibile» - Pomigliano era descritta come una fabbrica «ingovernabile», che richiedeva uno strappo una tantum alle regole - è diventata «normalità» in tutti gli stabilimenti del gruppo. Senza nemmeno dover passare per altri referendum. Se non li chiede Fiat, alle sue condizioni, non si fanno. Ma ad un certto punto l’associazione delle imprese del settore - Federmeccanica - ha cercato di fare altrettanto, smettendo di riconoscere la Fiom come soggetto firmatario di contratto. Guarda caso, proprio dopo che il contratto nazionale firmato anche dalla Fiom - il 31 dicembre 2011 - era scaduto e il sindacato di Landini aveva già ottenuto massicci consensi sulla piattaforma da presentare per il rinnovo.
Infine, l’art. 18. Questa «misura di civiltà» ha un solo significato pratico: consentire a ogni singolo lavoratore di comportarsi da essere umano - e non da schiavo riconoscente - davanti alle pretese o ai «comandi» dell’impresa. Far rispettare il contratto, segnalare i pericoli per la sicurezza, far pesare i propri interessi anche quando questi possono confliggere con quelli dell’azeinda. Non poter essere licenziati quando lo si fa, è una precondizione. Semplicemente necessaria. Come in altri paesi, con regole simili, magari con altri nomi e automatismi leggermente diversi.
Poi, certo, parlerà un terribile «no tav» dal palco. Perché «democrazia al lavoro» significa far sentire la voce di chi - per giuste ragioni, non per capriccio «nimby» - ha qualcosa da obiettare all’unica «libertà» che sembra essere oggi legittima: quella dell’impresa. Oggi, in piazza.
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