Francesco Cocco
E’ certamente positiva la decisione di rendere pubbliche le remunerazioni dei grandi burocrati dello Stato. Questo non per un fatto di morbosa curiosità ma perché ci apre una finestra su quella che é la pubblica amministrazione in Italia, o meglio sulla mancanza di un serio principio di organizzazione e quindi sul conseguente degrado. Così come giudico positivo che si sia posto il limite di 294.000 euro annui per la remunerazione degli stessi dirigenti.
Abbiamo così appreso che talvolta la remunerazione è pari o superiore al doppio rispetto al predetto limite dei 294.000 euro. Questa situazione appare tanto più scandalosa se teniamo presente che in Italia stipendi e salari, sulla base delle rivelazioni Eurostat, sono tra i più bassi in Europa: una media di 23.000 euro .
Se Monti raggiungerà l’obiettivo dichiarato, certamente merita un plauso, ma nutro qualche dubbio che il governo riuscirà ad imporre i necessari adeguamenti, visto che a godere di un trattamento privilegiato sono i titolari di funzioni di vertice, la cui collaborazione è essenziale per portare avanti l’azione di governo.
Nel leggere sui quotidiani il quadro di queste favolose retribuzioni mi è venuta la curiosità d’andare a consultare un vecchio codice delle leggi amministrative. Così, rileggendo la “tabella unica degli stipendi, paghe e retribuzioni del personale statale dal 1° luglio 1956”, ho potuto constatare che tra il livello massimo di retribuzione (£. 3.210.000) e quello minimo (£. 369.000) vi era un rapporto di 8,6 tra remunerazione massima e minima. Oggi il rapporto oscilla mediamente tra 1 e 30 ed in qualche caso tra 1 e 50. Cioè lo squilibrio remunerativo è andato moltiplicandosi nel tempo.
Quale può essere la causa scatenante di un tale moltiplicatore degli squilibri remunerativi? L’interrogativo merita un’attenta riflessione, Qui possiamo cominciare ad abbozzare una qualche prima risposta. Nel ’56 l’Italia era uscita da poco più di un decennio dai disastri della seconda guerra mondiale. Era in piena fase di ricostruzione materiale e morale. Non sarebbe stato possibile creare un clima di slancio e collaborazione sociale senza regolamentare con equità le remunerazioni dei dipendenti pubblici.
A partire dagli anni settanta, e soprattutto dai primi anni novanta, il trionfo del pensiero neo-liberista ha incrinato, sin quasi ad eliminarle, regole fondamentali degli assetti organizzativi pubblici. Di qui la corsa a status remunerativi differenziati nei vari settori, col conseguente rifiuto di un principio unitario come quello disciplinato nel ‘56 che comprendeva tutti i comparti della pubblica amministrazione, nessuno escluso.
Questa corsa alla differenziazione era il segno di una società che cominciava a disgregarsi, di una logica (vedi a suo tempo la denuncia di Enrico Berlinguer) d’impossessamento della cosa pubblica da parte dei partiti, della concorrenza affannosa tra gran commis di stato e manager di aziende pubbliche nell’ attribuirsi condizioni remunerative sempre più elevate. Questi ultimi hanno raggiunto il vertice dell’impudicizia visto che la loro remunerazione supera di gran lunga quella dei gran commis di stato e riescono a farsi liquidare indennità di buonuscita favolose, anche quando chiudono in modo fallimentare la loro gestione. Per tutti il caso Guarguaglini che dopo aver quasi portato al fallimento la Finmeccanica è stato liquidato con 5 milioni di euro.
Non occorre molto acume per comprendere che un tale processo rientra nella logica dominante del neo-liberismo selvaggio. Da esso deriva in non piccola misura la rottura dello spirito pubblico e del sentire comunitario. Così la sinistra, se tale vuol tornare ad essere, dovrà battersi per ripristinare le regole fondamentali di equità nell’organizzazione della cosa pubblica.
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