Antonio Di Stasi
Alcuni giorni fà in questo blog abbiamo posto alcuni quesiti al Presidente Napolitano in relazione alle sue recenti esternazioni sulla politica di governo. Uno di questi, sul welfare, è stato avanzato su “Il Manifesto” di giovedì, anche da Antonio Di Stasi, docente di diritto del lavoro nell’Università Politecnica delle Marche. L’autore avanza anche alcune considerazioni di ordine costituzionale sulla compatibilità di queste prese di posizione col ruolo di pura garanzia spettante al Presidente nel nostro ordinamento. Le riflessioni ci paiono particolarmente interessanti. Eccole.
L’ultimo intervento del Presidente della Repubblica sulla necessità di «mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso» fa sorgere una domanda: l’attivismo e il contenuto delle affermazioni del Presidente della Repubblica sono rispettose del ruolo che la Costituzione prevede per il capo dello Stato?
Anche chi non ha una cultura giuridica da costituzionalista avverte l’originalità del comportamento di Napolitano rispetto a consolidati precedenti di astensione dall’intervento diretto nelle questioni politiche e di governo, tanto che, nell’ultimo anno, hanno lasciato quantomeno perplessi sia i suoi interventi a favore della guerra in Libia, sia la nomina di Monti a Senatore a vita prima di dargli l’incarico di Capo del Governo.
Di fronte al «fragore» degli episodi appena richiamati sembrerebbero poca cosa le ultime affermazioni relative al welfare. In realtà, con esse Napolitano asseconda chi vuol colpire il cuore dello Stato sociale e distruggere il valore primo della Legge fondamentale della Repubblica che connota in senso sociale il nostro Stato (come quelli tedesco, francese, portoghese, et altri). Il «lavoro» è valore fondante della Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38 della Costituzione) ed è posto, nello stesso momento, quale elemento di inclusione sociale, di dignità e architrave del sistema di sicurezza sociale. Toccare i diritti del lavoro significa tradire il principio cardine dell’intera architettura costituzionale e, dunque, della civiltà democratica e sociale che la Repubblica ha espresso dalla Resistenza ad oggi. Se infatti la priorità, come afferma la ministra Fornero e come riecheggia il Presidente Napolitano - in un concerto di dichiarazioni in cui non sfugge certamente la «paternità» - è sostituire il sistema di sicurezza sociale precedente (costruito intorno alla difesa e al mantenimento del lavoro) con un sistema «nuovo», «moderno», è evidente come questo sistema non abbia più il proprio baricentro nel lavoro, ma in qualcosa di altro. E allora Napolitano quando parla di «sistema di welfare e di sicurezza sociale diverso» cosa ci vuole dire? Ancora una volta lo capiamo bene sia dagli ultimi provvedimenti in materia di innalzamento dell’età pensionabile, di abbassamento dei diritti previdenziali, di totale abolizione della pensioni di anzianità, di blocco della rivalutazione delle pensioni, e sia dalle dichiarazioni della ministra Fornero che vuole rendere i lavoratori giovani più precari toccando l’art. 18 ed eliminare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Ecco cosa si prospetta con la riforma del welfare e la riforma degli ammortizzatori sociali: la tutela del lavoro non è più una priorità e il lavoro non è più diritto esso stesso; si preferisce tornare alla liberale assicurazione contro la disoccupazione involontaria piuttosto che utilizzare la molto più recente Cigs per mantenere intatta la capacità di un gruppo di lavoratori e non disperdere la loro professionalità. In questa furia restauratrice non c’è nulla di nuovo ed i diritti dovrebbero lasciare il posto ad ottocentesce (altro che moderne) «gentili concessioni». Un’idea già contenuta nel Libro Bianco del 2001, ad opera dell’allora ministro Maroni, secondo cui le tutele andrebbero spostate dal rapporto di lavoro al «mercato» e con il passaggio da diritti soggettivi a mere aspettative rimesse a unilaterali vincoli economici. Intendere l’equità secondo il principio che «chi già più ha più deve continuare ad avere» e non attraverso il principio della pari dignità sociale attraverso l’essere lavoratore significa tradire nel più profondo la Carta costituzionale
Di questo il Presidente della Repubblica deve rendersi conto.
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