Governo sobrio, ne siamo sicuri?

8 Febbraio 2012
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Felice Roberto Pizzuti

Uno degli argomenti a favore del governo Monti è che esso ci ha liberato dal Cavaliere e che, con la sua sobrietà, ha introdotto un nuovo stile di governo, centrato sul fare e non sulle favole. Un salutare ritorno alla normalità, tanto più apprezzato dopo le stravaganze del precedente inquilino di Palazzo Chigi.
Tuttavia, le dichiarazioni di Monti sul posto fisso e l’aumento del 10% del Pil grazie alle liberalizzazioni fanno dubitare delle capacità di farci uscire dalla crisi. Sono poi gratuite e intollerabili le provocazioni di più d’uno dei membri del governo nei riguardi dei giovani, dei precari e dei lavoratori. Ecco perché ci sembra particolarmente interessante per capire il presente e la prospettiva questo articolo, apparso su Il Manifesto di ieri, di F.R. Pizzuti, Professore ordinario di Politica Economica e di Economia e Politica del Welfare State presso la Facoltà di Economia della “Sapienza”, Università di RomaL’autorevole economista squarcia il velo delle apparenze e ci indica i limiti della politica economica liberista di Monti, assegnando nel contempo alle forze progressiste e della sinistra il compito di risollevare il nostro Paese.
Ecco un ampio stralcio della riflessione di Pizzuti.

Tra le qualità attribuite al governo Monti c’è la sobrietà; potrebbero dunque lasciare perplessi alcune sue posizioni. Ad esempio, è decisamente stravagante affermare che le misure di liberalizzazione presentate faranno aumentare il Pil addirittura del 10%. Una valutazione siffatta, prima ancora che enfatica, non ha basi affidabili di misurazione, ma esime o distoglie l’attenzione da misure di stimolo alla domanda che in una situazione di grave recessione sono sicuramente più appropriate ed efficaci. Vi suscita non minori dubbi quando, riferendosi ai tre obiettivi del suo governo - rigore dei conti pubblici, crescita ed equità - sostiene che il terzo sarà il risultato delle riforme volte a rendere i mercati realmente concorrenziali. Solo i neoliberisti più sfrenatamente ottimistici hanno immaginato che lo sviluppo generato dai mercati implichi un miglioramento anche per i più poveri (la teoria del trickle down, dello sgocciolamento), ma non sono stati confortati da verifiche empiriche. Tuttavia, se questa è l’idea di equità e del modo di raggiungerla, non sorprende la “tosatura” del sistema previdenziale pubblico, che pure ha un saldo attivo tra contributi e prestazioni previdenziali nette pari all’1,8% del Pil e già da anni sostiene il complessivo bilancio pubblico; né sorprende il progetto di depotenziarlo ulteriormente riducendo le aliquote contributive (e quindi le prestazioni) e immaginando un ruolo sostitutivo e non aggiuntivo per la previdenza privata che, però, assorbe risorse pubbliche (e qui sorge qualche contraddizione; come pure nell’accordare proprio in questo periodo l’aumento dei pedaggi delle autostrade a favore di gestori privati operanti in un contesto molto poco concorrenziale).
Ancora meno sobrio è cercare di convincere i giovani della “monotonia” del posto fisso quando il loro drammatico problema esistenziale è che oggi e in prospettiva sono disoccupati (uno su tre in media nazionale, una su due le ragazze meridionali) e che la loro precarietà di vita si estende fino ad includere una inaffidabile copertura pensionistica. Questa sgradevole irrisione della condizione giovanile trae motivo dalla convinzione governativa che, nonostante la natura recessiva della crisi, l’imperativo sia comunque migliorare le condizioni dell’offerta. Il che, per il governo, giustifica anche l’aumento dell’età pensionabile (si avrebbe più forza lavoro disponibile; ma per fare cosa?). In realtà, il trattenimento forzoso a lavoro è servito solo a fare cassa, ma con l’effetto di ridurre ulteriormente i già pochi posti di lavoro disponibili per i giovani e di rendere meno produttiva e più costosa la forza lavoro (il ché, anche dal lato dell’offerta, non è positivo).
Sorpresa deriva anche dalla soddisfazione espressa da Monti dopo la recentissima approvazione del “Patto fiscale” («abbiamo avuto quello che volevamo»!?) dato che l’affermazione del “rigorismo” tedesco (peraltro, poco rigorosamente influenzato dalle esigenze elettorali della signora Merkel ) imporrà politiche deflattive all’intera Unione (pregiudicandone la sopravvivenza), e particolarmente all’Italia, che già senza queste misure è in recessione. A riprova della pericolosa “stupidità” delle due regole stabilite dal “Patto” - il rientro di 1/20 l’anno dal debito superiore al 60% del Pil e il pareggio di bilancio annuale costituzionalizzato - il loro rispetto innescherà un meccanismo di autoalimentazione degli effetti deflattivi poiché quanto più un paese già tende ad una crescita bassa o negativa (e avrebbe bisogno di misure espansive), tanto più consistenti dovranno essere le “manovre” restrittive (con gli ulteriori effetti deflattivi che si cumulano in una trappola recessiva).
A ben vedere, espressioni appena usate come “sobrietà” e “stravaganza” nel descrivere le opinioni di Monti sono fuorvianti, così come lo è parlare del suo come di un “governo tecnico”. Il punto è che le sue “manovre” e le sue posizioni esprimono, come è ovvio, una visione politico-culturale che, cosa niente affatto sorprendente, è liberista; anzi, le posizioni appena ricordate rivelano un’applicazione radicale di quella visione, ma proprio quando la crisi ne certifica un suo nuovo, drammatico fallimento.
Il passaggio da mercati con rendite di posizione - magari di tipo corporativo - a mercati più concorrenziali può, in alcuni casi, avere anche effetti positivi. Tuttavia, la gravità della crisi globale esplosa nel 2007-2008 conferma quanto già dimostrato dalla grande crisi degli anni trenta e da una sterminata letteratura economica cioè l’illusorietà che il mercato, liberato dai “lacci e lacciuoli”, possa determinare una elevata, stabile e diffusa crescita economica. Pensare dunque che le manovre di “rigore” e di liberalizzazioni adottate possano dare contributi significativi per uscire dalla crisi e migliorare l’equità, più che stravaganza, esprime una convinzione ideologica tanto accentuata quanto contraddetta da riscontri storici e analitici.
L’esplosione del debito e la finanziarizzazione dell’economia sono aspetti importanti della crisi, ma non le cause primarie; per uscirne occorre intervenire su aspetti “reali” dell’attuale modello di crescita. In primo luogo è necessaria una migliore distribuzione del reddito; non solo per attenuare le diseguaglianze macroscopiche esplose negli ultimi decenni, ma anche per consentire ad una superiore quantità e qualità della domanda finanziata da redditi reali (anziché da “bolle” o da incerti crediti al consumo) di annullare il divario con la capacità d’offerta produttiva che è all’origine della crisi. In questo contesto, i sacrifici salariali e delle prestazioni sociali richiesti come contributo “responsabile” dei lavoratori alla ripresa dell’economia ne costituirebbero invece un aggravamento; oltre che ingiusti, essi sarebbero  controproducenti rispetto all’interesse generale mentre le richieste sindacali sono coerenti alle necessità della situazione attuale.
Allo stesso tempo, nel sistema produttivo occorre una riconversione dei modelli di produzione e di consumo che, assumendo nuove compatibilità sociali e ambientali, avvii una nuova rivoluzione tecnologica capace di coniugare la quantità della crescita con una sua superiore qualità civile.
Questi cambiamenti non possono scaturire solo dalla pura combinazione spontanea di interessi e scelte individuali; è necessario un riequilibrio tra scelte di mercato (che comunque vanno fatti funzionare al meglio) e scelte pubbliche. Anche in questo secondo ambito, è necessaria una ricomposizione tra i poteri e i criteri decisionali delle autorità di politica economica democraticamente rappresentative, come i parlamenti e i governi, e quelli delle istituzioni non direttamente rispondenti alla collettività, come le banche centrali. […] 

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