Titoli di studio: valgono solo quelli per ricchi?

7 Febbraio 2012
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Rosamaria Maggio - vice Pres. naz. CIDI

In questi due mesi e mezzo di Governo Monti, i fatti e le notizie si rincorrono su stampa e web. Il livello di consenso degli italiani, anche se altalenante e malgrado le varie proteste di categoria, si attesta su livelli piuttosto alti: il 58% degli italiani sono per il Governo Monti.
Ma non potrebbe essere diversamente. Dopo anni di berlusconismo, la sobrietà dei toni, la sensazione che comunque ci sia uno sforzo di affrontare i problemi, sono per gli italiani segni che meritano fiducia.
Ovviamente le zone d’ombra sono tante. In questi giorni, ad esempio, è salito all’onore delle cronache il vice-ministro del lavoro, Michel Martone, per una sua frase sugli “sfigati” pronunciata alla Giornata sull’apprendistato. Su questo punto si è scritto tanto. Meno o nulla si è detto di un’altra perla di Martone. Egli infatti, nella medesima circostanza, suggerisce agli studenti: “Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. In sostanza il Martone invita i nostri ragazzi che pensano di non farcela d’imboccare tempestivamente la strada della “istruzione o formazione professionale”. Eh si, è diffusa l’idea classista che ci sia chi non ce la fa, per destino divino, e quindi è meglio che non perda tempo a cercare “di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34 Cost., 3°comma). A me sembra, da insegnante e da cittadina, che questa parte del discorso del viceministro sia grave almeno quanto l’altra. Ma un viceministro non dovrebbe essere anch’esso sottoposto alla Costituzione ed ispirarsi ad essa?
A questi ragionamenti si aggiungono le intenzioni, per ora solo rimandate, di abolire il valore legale del titolo di studio. Naturalmente su questa ulteriore questione si sprecano le citazioni. Si scomoda Luigi Einaudi, da un lato, decontestualizzato e, dall’altro, comunque espressione di un pensiero liberale, per sostenere la necessità di un limitato intervento statale.
Abbiamo tutti abbracciato queste idee come se fossero la verità rivelata?
E’ francamente curioso che in un paese in cui l’accesso alle facoltà universitarie è sbarrato da selezioni in ingresso (vedi test di ammissione alle varie facoltà e università), si voglia invece liberalizzare il risultato di questo percorso in un modo assai inquietante. Per arrivare ad avere lauree che si differenziano in ragione del luogo di conseguimento (si vuole cioè che una laurea in economia aziendale conseguita alla Bocconi abbia un peso maggiore di quella conseguita all’Università statale di Roma ad esempio), si vuole far si che tutte le lauree siano uguali.
Quindi fatta eccezione per le lauree considerate ad alta specializzazione (forse medicina ed ingegneria?), in questi giorni si discuteva della possibilità di consentire ad un laureato in economia e commercio di conseguire l’abilitazione alla professione di avvocato e forse potremo provare ad immaginare…un laureato in lettere, lingue, biologia, farmacia, partecipare a qualunque concorso pubblico, ad esempio, per funzionario amministrativo ministeriale, nelle ragionerie dello Stato o degli enti locali, negli uffici finanziari. Ma anche potremo ipotizzare che un laureato in giurisprudenza possa concorrere per l’apertura di una farmacia, che un farmacista possa diventare Revisore dei conti e così via.
Il problema della qualità dei nostri laureati non si risolve facendo una classifica delle Università e spazzando via le specificità dei diversi percorsi formativi. Chi si iscriverebbe da un lato in una Università agli ultimi posti della classifica o viceversa come potrebbe uno studente di modeste condizioni economiche affrontare un percorso di studi nelle più prestigiose Università? O non è forse meglio cercare di acquisire tutte le informazioni possibili sul livello della nostra formazione universitaria al fine di intervenire sui punti di debolezza con investimenti appropriati ed invece diffondere le buone pratiche didattiche ed i punti di forza?
I differenti percorsi formativi in altrettante facoltà devono intercettare gli orientamenti personali degli studenti, le passioni, gli interessi ed a questi deve seguire un riconoscimento formale (la laurea) che ne attesti la preparazione ancorché diversificata (attraverso un voto) e che consenta la spendibilità nel mondo della ricerca o del lavoro.
Che cosa ci dovremo attendere come insegnanti, studenti o genitori in un prossimo futuro?
Ora si vorrebbe consentire di insegnare tutto a tutti. Sulla base di quali requisiti e quali criteri di accertamento? Ancora si vocifera di parificare le lauree triennali alle lauree magistrali: ma allora che senso avrebbe per uno studente affrontare i sacrifici di lauree quinquennali, nonché le spese ed il ritardo che questa scelta determina sul piano dell’accesso al mercato del lavoro, quando in tre anni si potrà raggiungere lo stesso risultato? Non si ritiene che questo potrebbe solo disincentivare lo studio e non contribuire a migliorare e ad aumentare le competenze culturali dei giovani se qualunque percorso fosse equivalente?
Mi chiedo se i nostri Governanti abbiano preso in considerazione questi aspetti, e cioè il rischio di una ulteriore caduta del profilo culturale dei nostri studenti che a livello universitario non appare così al di sotto delle medie internazionali ed anzi molte eccellenze, proprio perché non hanno alcuna prospettiva occupazionale in Italia, tendono ad andare verso altre paesi ed altre economie!
L’istruzione, l’insegnamento, la cultura ed il diritto di apprendere stanno diventando una merce?

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