Gianna Lai
Enzo Collotti all’Università nel pomeriggio, Clara Murtas al Crogiuolo in tarda serata, per due iniziative che hanno caratterizzato la Giornata della Memoria qui a Cagliari il 27 Gennaio, nel ricordo della liberazione del campo di Aushwitz ad opera dell’Armata Rossa. Ricostruire di fronte a tanti studenti il quotidiano di una vicenda così drammatica come la storia del Ghetto di Varsavia, ridare voce in teatro ai protagonisti del tempo nella lettura delle loro testimonianze ancora vive e così commoventi, crea grandi emozioni e aiuta a conoscere e a capire la storia dell’oppressione nazista in Europa, liberando l’evento dalla retorica e dai luoghi comuni, che rischiano spesso di trasformarlo in stanca ed inutile celebrazione ufficiale.
Perchè, già dalle prime immagini che scorrono sullo schermo e che testimoniano della vita del Ghetto di Varsavia secondo il punto di vista degli occupanti, si comprende il contesto dello stermino in cui si svolge la vicenda. Dice il professor Collotti, la Polonia campo di riserva di manodopera da schiavizzare al servizio del 3^ Reich, secondo un vecchio sogno che risale all’epoca bismarkiana, è l’antefatto al processo di distruzione dell’ebraismo polacco, come di quello del resto dell’Europa. Ed è a seguito dei rastrellamenti e della concentrazione degli ebrei nelle grandi città che Varsavia vede la formazione del Ghetto nel 1940: un muro alto tre metri, e chi è dentro non può più uscire, pena la deportazione. Su una superficie che occupa il 4% della città si ammassa il 30% della popolazione, una media di 15 persone per abitazione, 6-7 per ogni vano. Microcosmo di società è il Ghetto, con i servizi pubblici, i trasporti pubblici, i giornali, il teatro, i luoghi di ritrovo e i luoghi in cui si fa musica. Ci sono gli artisti e ci sono le scuole, gli ospedali, le prigioni, il cimitero, e ricche biblioteche frequentate da numerosissimi lettori, perchè la cultura del popolo ebraico è di altissimo livello. E anche se non si può idealizzare il fenomeno della solidarietà, l’indigenza alimenta il conflitto tra le persone, essendo la fame l’arma principale dello sterminio in tutti i territori occupati dai nazisti, ci sono nel Ghetto numerosi focolai di resistenza alimentati sempre attraverso la produzione della stampa clandestina. Così nel Ghetto, proprio ad opera degli intellettuali impegnati nell’opposizione al nazismo, nascono grandi archivi che testimonieranno fino ai giorni nostri della vita dei suoi abitanti. E c’è la lotta di classe nelle fabbriche del Ghetto, quelle tessili, della birra, delle spazzole destinate ai rifornimenti della Wermacht, dove lo sfruttamento è durissimo, così come lo impongono i tedeschi invasori, che impongono agli ebrei stessi la gestione intera del Ghetto, nella speranza che si annientino da sè. E l’ epilogo sarà molto drammatico quando, nel ‘42, il 1^ Ordine di deportazione verso il Campo di sterminio di Treblinka verrà trasmesso al Presidente del Consiglio, che si suiciderà per aver accettato le imposizioni degli occupanti. E’ così che, a poco a poco, il Ghetto inizia a restringersi e l’insurrezione, più che tentativo di liberarsi dall’oppressore, diviene invece l’emblema di una dignità che deve essere salvata anche davanti alla morte. 10 mila bambini muoiono nel Ghetto nel 1942, di fame, nei marciapiedi e nelle strade, come mostrano le immagini, le più terribili, che scorrono a conclusione dell’intervento di Collotti. E quando più tardi, al Crogiuolo, la lettura di Clara Murtas rimanda le storie di quella sofferenza indicibile, è proprio attraverso le parole di una bambina sopravissuta allo sterminio che sentiamo il racconto dell’infanzia rubata a milioni di esseri umani in Europa. Nella scrittura di Primo Levi, Elisa Springer, e poi di Nedo Fano, Cesare Rimini, Davide Schiffer, Italo Bassani, Chiara Bricarelli, la forza di una umanità che ha ancora il coraggio di vivere, narrando di persone che non son più ritornate, di sofferenze e dolori che non si possono tacere, neppure di fronte al silenzio e all’indifferenza dei vivi. Gli attori a teatro interpretano e rivivono emozioni, Clara sceglie testi che, di quei tempi così bui, sanno trasmettere ancora, a distaccati spettatori contemporanei come noi, la drammaticità di una storia da rileggere con occhio sempre attento al presente. E anche quando introduce l’argomento, questo significato sembra voler dare al percorso sulla Shoa rappresentato per il 27 Gennaio al Crogiuolo, molto semplicemente testimonianza di un impegno del teatro contro l’oppressione e l’ingiustizia. Così la sua voce calda e ferma ridà vita a personaggi e sentimenti, mantenendo un ritmo sostenuto di fronte all’evento drammatico, sollevando i toni quando l’attesa che ha tenuto in sospeso lo spettatore raggiunge l’apice. Ma sempre essenziale e spontanea, naturale, come deve essere l’interpretazione di chi vuole sollecitare il pubblico a uscire dalla passività cui sembrano costringerci questi tempi, non altrettanto bui, certo molto difficili. E prima di chiudere, quel graditissimo invito finale a consumare insieme il pane e il vino, così da riprendere eventualmente il discorso su temi tanto drammatici, all’insegna dell’amicizia e della condivisione del cibo.
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