Carlo Dore jr.
“Quella di Pinochet non fu una dittatura”, ma un molto più tollerabile “regime militare”. Nel tentativo di consegnare al suo Cile una “memoria condivisa”, e come tale emendata da “incrostazioni ideologiche” e da “visioni parziali”, il presidente Pinera si è armato di scolorina e ha disposto la cancellazione della parola “dittatura” dai manuali scolastici destinati ai giovani studenti della Repubblica di Santiago.
Il revisionismo tipico della recente contro-cultura italica di colpo solca l’Atlantico, varca la catena andina e si diffonde nel cuore del continente americano: la destra cilena mette in esecuzione il progetto cullato dal bibliofilo Dell’Utri, che da anni propone di ripulire i libri di storia dalle pericolose contaminazioni del pensiero bolscevico, magari integrandoli con note a margine estratte dai discussi e discutibili (documento o patacca?) Diari del Duce di cui è curatore e prefatore.
“Quella di Pinochet non fu una dittatura”, la creazione di una “memoria condivisa” val bene un piccolo sacrificio in termini di verità. “Quella di Pinochet non fu una dittatura”: meglio stemperare, smussare soprassedere, sminuire. Meglio stendere una rassicurante, grigia cappa di oblio sulle bombe che rasero al suolo il palazzo de La Moneda, sulle torture del lager di Pisagua, sui voli della morte, sugli eccidi di massa perpetrati all’interno del Estadio Nazional, dove le grida degli oppositori falcidiati dalle mitragliatrici si confondeva con il rumore metallico delle pallottole e con il suono gutturale delle risate sparate senza soluzione di continuità dai boia in divisa verde, mentre un insopportabile effluivio di alcool, sudore, sangue, sigarette americane, violenza e disperazione si diffondeva nel cielo sopra Santiago.
L’odore della paura, l’odore della morte, l’odore della dittatura.
“Quella di Pinochet non fu una dittatura”: meglio che la gente dimentichi, che non sappia, che non continui a ricordare. Pinera recepisce il ragionamento di Berlusconi: Pinochet, al pari di Mussolini, può al massimo essere definito come un despota “benigno” che al massimo mandava gli oppositori in vacanza al confine. “Quella di Pinochet non fu una dittatura”: questa è la pietra angolare della “memoria condivisa”, una cattedrale di cartapesta costruita nel cuore del deserto della menzogna.
Già, perché sotto la cappa grigia del negare ad ogni costo continua ad agitarsi un fantasma inafferrabile: un fantasma fatto di ricordi, di musica, di libri, di parole. Le parole di quanti non hanno mai smesso di praticare quello che Gherardo Colombo ha efficacemente definito “il fantasma della memoria”; le parole di Patricia Verdugo, cronista implacabile degli anni in cui il Cile era soggiogato all’artiglio del Puma; le parole di Victor Jara, poeta e cantautore trasformato nel fantasma di una libertà lontana e perduta; le parole scandite sulle note degli Inti Illimani, colonna sonora senza fine di una stagione di fuoco e sogno; le parole di Pablo Neruda, poeta dell’amore che voleva cambiare il mondo; ma, soprattutto, le parole gettate con coraggiosa indifferenza da Salvador Allende in faccia ai gerarchi della giunta militare, benedetti da Roma come da Washington: siete tutti compromessi, la Storia vi giudicherà.
Già, la Storia. La Storia ha da tempo emesso il suo giudizio, separando la ragione del torto, le vittime dai carnefici, la legittima difesa di un’idea dalla bieca cultura della sopraffazione. La Storia ha emesso il suo giudizio, e la parola “dittatura” è stata impressa a fuoco sulla copertina di ogni libro dedicato al golpe del 1973, all’assalto alla Moneda ed al regime di Pinochet: immutabile ed insensibile alla scolorina di Pinera come alle patacche di Dell’Utri; alle ardite acrobazie verbali di quanti tentano di costruire la cattedrale della “memoria condivisa” nell’instabile deserto della cultura della menzogna.
www.carlodore.blogspot.com
0 commenti
Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.
Lascia un commento