Andrea Pubusa
Il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica non è stato solo un saluto formale di auguri. E’ anche entrato nel merito dell’attuale fase della storia nazionale. Un discorso di verità perché mette in luce la condizione contraddittoria e complessa degli italiani, che da un lato col calore per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia mostrano fiducia nel futuro del Paese, ma, al tempo stesso, dinnanzi alle avversità non si fanno alcuna “illusione” e mostrano molte preoccupazioni, volontà di lotta e larghe fasce di scoraggiamento e di pessimismo.
Certo, non è compito del Presidente ma dove sia indirizzato “lo sforzo di risanamento”, a voler essere ottimisti, rimane un mistero. La ripresa - come dice il Capo dello Stato - dipende da adeguate scelte politiche e imprenditoriali, ma anche “da comportamenti diffusi, improntati a laboriosità e dinamismo, capaci di produrre coesione sociale e nazionale”. Ma in quale direzione vanno questi sforzi?
Sia ben chiaro non si chiede a Napolitano un oroscopo né si pretendono da lui arti divinatorie, né un intervento aperto sulle questioni del governo, dove si è già esposto oltre il proprio ruolo di garante della Costituzione. Ma, proprio in questa sua funzione, non è lecito aspettarsi da lui una forte spinta al rinnovo del compromesso fra lavoro e capitale? Non è questo equilibrio l’indirizzo che la Carta esprime ai livelli più alti?
Il Capo dello Stato ha giustamente richiamato le “grandi prove” superate in passato in momenti altrettanto difficili, come nella terribile seconda metà degli anni ‘70. Occorre, però, ricordare che in quegli anni fu riformata la scala mobile, con “l’accordo Lama-Agnelli” del 1975 (tra il capo della Cgil e il capo di Confindustria, nonché padrone della Fiat), in virtù del quale il punto di contingenza – cioè l’aumento da corrispondere in base all’inflazione – diventava uguale per tutti, creando una formidabile compattezza di tutto il mondo del lavoro dipendente. Fu anche estesa la cassa integrazione così da farla diventare un ammortizzatore sociale. In quel decennio poi furono cancellate le gabbie salariali che dividevano il paese con retribuzioni più basse al Centro-Sud rispetto al Centro-Nord, e i lavoratori e le lavoratrici conquistarono il sistema previdenziale retributivo (che aggancia pensioni e salari). In precedenza era stato approvato lo Statuto dei lavoratori (col tanto discusso art. 18) e un rito veloce e moderno del lavoro.
Insomma, non andò a buon fine il “compromesso storico” sul piano del governo, ma un accettabile equilibrio fra capitale e lavoro, questo sicuramente fu realizzato. Fu questo patto che consentì di temperare un’inflazione che galoppava a due cifre e - come ricorda Napolitano - creò la coesione sociale prima che politica per “sconfiggere l’attacco criminale quotidiano e l’insidia politica del terrorismo brigatista”. E’ il caso di ricordare poi che proprio con l’attacco alla scala mobile da parte del governo Craxi nel 1983 ha avuto avvio in Italia quel duro ciclo neoliberista contro il mondo del lavoro e il Welfare, che ha concorso alla crisi dei tre decenni successivi e all’avvento del berlusconismo dopo la caduta di Craxi.
“Nella seconda metà del Novecento, il benessere collettivo è giunto a livelli un tempo impensabili portando l’Italia nel gruppo delle nazioni più ricche”, ha detto Napolitano. Ed è vero. Ma occorre sottolineare che tale avanzamento è stato l’esito dell’applicazione di politiche keynesiane a seguito di un ciclo formidabile di lotte. Questo patto sociale ebbe come referenti politici e garanti il PCI e la DC e, dapprima anche il PSI. che poi con Craxi ne fu il massimo eversore. Giustamente, dunque, il Presidente coglie la svolta a partire dagli anni Ottanta: “la spesa pubblica è cresciuta in modo sempre più incontrollato e ormai insostenibile. E c’é chi ne ha tratto e continua a trarne indebito profitto: a ciò si legano strettamente fenomeni di dilagante corruzione e parassitismo, di diffusa illegalità e anche di inquinamento criminale”. Ma, caro Presidente, tutto questo è stato il frutto avvelenato dell’attacco pesante, a partire dal decreto Craxi sulla scala mobile del 1983, contro i lavoratori. Allora il demone era la scala mobile, come oggi è l’art. 18. E questo è il risultato del neoliberismo, ossia della rottura del patto sociale e costituzionale d’ispirazzione keynesiana.
Sacrosanto il richiamo dell’altra grande patologia italiana: “una massiccia, distorsiva e ingiustificabile evasione fiscale”. E ancora corretta tanto da essere ovvia è la considerazione che “nessuno oggi, nessun gruppo sociale, può sottrarsi all’impegno di contribuire al risanamento dei conti pubblici, per evitare il collasso finanziario dell’Italia”. Il problema però è sapere dove si và a parare: si continua e affina l’attacco al lavoro e ai ceti popolari o si và ad un accettabile riequilibrio? Questo è il dilemma. L’obiettivo và dichiarato e perseguito e da esso e solo da esso dipende il consenso e ancor più la mobilitazione convinta delle masse popolari. Cosa si vuol fare? Cari Napolitano e Monti questo è il quesito a cui occorre rispondere qui e subito. Coi fatti.
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