Andrea Pubusa
L’articolo di ieri di Andrea Raggio su questo blog stimola una riflessione di merito sulla proposta Ichino di riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, formulazione - pare - molto gradita all’attuale governo.
Cosa dice, dunque, Pietro Ichino? In questi giorni, ai molti «allarmati» per una «ondata di licenziamenti» a seguito della riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, manda un messaggio rassicurante: come ha già detto il presidente del Consiglio la riforma riguarderà solo i nuovi rapporti di lavoro. A quelli precedenti continua ad applicarsi la vecchia disciplina.
In futuro, dovrebbero essere soppressi la miriade di contratti oggi ammessi, precari o precarissimi: a mesi, a giorni, ad ore…perfino a chiamata telefonica! Al loro posto dovrebbe esserci un “contratto unico” o meglio un “diritto del lavoro unico”, per tutti i lavoratori dipendenti. In questo “diritto del lavoro unico” si potrà assumere un giovane come apprendista, stipulare un contratto a termine nei casi classici, come il lavoro stagionale, un lavoro predeterminato o le sostituzioni temporanee. Ma esclusi questi casi, previsti per legge, tutti i rapporti sarebbero a tempo indeterminato. Non sarebbero perciò più necessari gli ispettori, gli avvocati e i giudici per accertare l’applicabilità del diritto del lavoro. I requisiti risulterebbero dai tabulati Inps o dell’Erario. Tutti a tempo indeterminato, a tutti le protezioni essenziali.
A chi si applicherebbe l’articolo 18? Spiega Ichino: a tutti i nuovi rapporti di lavoro dipendente se i licenziamenti sono discriminatori. Sembra, dunque, di capire che la tutela nei licenziamenti senza giusta causa si estende a tutti. Ma perché non dirlo espressamente? La norma esistente non verrebbe abrogata, ma anzi estenderebbe il campo di applicazione.
La novità riguarderebbe soltanto il c.d. giustificato motivo, ossia i licenziamenti da motivo economico od organizzativo (diminuzione di personale). In questo caso, ci sarebbe libertà di licenziamento: il controllo giudiziale sul motivo stesso verrebbe sostituito dalla responsabilizzazione dell’impresa nel passaggio del lavoratore al nuovo posto.
E qui Ichino toglie il coniglio dal cappello. Uno dei cardini della riforma - spiega - deve essere l’estensione a tutti del trattamento speciale di disoccupazione, pari all’80% dell’ultima retribuzione per il primo anno dopo il licenziamento. Per questo primo anno il trattamento completamente a carico dell’impresa sarebbe minimo: il 10% di differenza per arrivare al livello danese. Che aumenterebbe all’80% nel secondo anno, tutto a carico dell’impresa, ma solo se non sarà riuscita a ricollocare il lavoratore entro il primo anno. Per generalizzare il trattamento speciale di disoccupazione all’80% basta un sesto di quello che oggi spendiamo per la cig a zero ore “a perdere” attivata per mettere in freezer i lavoratori licenziati.
Quali i vantaggi, secondo Ichino?
L’impresa potrebbe licenziare per giustificato motivo e per i nuovi rapporti di lavoro non avrebbe più il costo pesante che sopporta per il ritardo nell’aggiustamento degli organici. Però dovrebbe destinare parte del risparmio per integrare il trattamento di disoccupazione del lavoratore e scegliere i servizi di outplacement e di riqualificazione, il cui costo sarebbe coperto dalla Regione.
Proposta onerosa? Fatti due conti per le imprese sarebbe - secondo Ichino - un costo accettabile, mediamente inferiore rispetto a quello cui oggi un’impresa deve sopportare per un piano di incentivazione all’esodo.
Ora, ad Ichino muovo alcune osservazioni di metodo e di sostanza. Di metodo: se la proposta mira ad estendere l’art. 18 nella parte più delicata, ossia nell’impedire licenziamenti discriminatori, senza giusta causa, perché non parlare di estensione dell’art. 18, anziché, come spesso si legge, di abrogazione, di soppressione? Affermare che la dignità del lavoratore è un bene prezioso, fondamentale per la nostra Costituzione fondata sul lavoro, spianerebbe già il campo per una proficua discussione.
Ecco ora le obiezioni di merito. Ichino vede con sospetto, considera un grave appesantimento la tutela giurisdizionale in caso di licenziamento. Ichino però è un giurista, un professore di diritto, e allora dovrebbe sapere più di altri che la tutela giurisdizionale è un’acquisizione irrinunciabile della civiltà giuridica, ed è garantita nella nostra Costituzione in molti articoli. Chiunque venga leso nei suoi diritti o interessi legittimi ha un giudice naturale, terzo e indipendente, a cui ricorrere per chiedere giustizia. Ed allora è fuor di dubbio che il numero dei ricorsi potrà essere ridotto, ma non eliminato. Rimarrebbero, per ammissione dello stesso Ichino, tutti quelli discriminatori, senza giusta causa, comunque camuffati. Andrebbero davanti al giudice del lavoro anche quelli per giustificato motivo, ove se ne contesti il presupposto. Insomma, come Ichino ben sa, non basta la qualificazione del padrone a scongiurare che il licenziamento nasconda motivazioni diverse da quelle enunciate. E allora? E allora il lavoratore o il sindacato si rivolge al giudice per accertare la vera natura del licenziamento. Insomma, siamo punto e a capo.
Inoltre, oggi i licenziamenti sono immediatamente esecutivi. Ricevuta la lettera di licenziamento, al lavoratore viene sbarrato il cancello della fabbrica o la porta dell’ufficio. Il Giudice potrà farlo rientrare se il licenziamento è illegittimo, ma non è necessario investire un tribunale della questione per precludere al dipendente l’accesso al lavoro e la cessazione di ogni beneficio economico. Ed allora dove sta il ritardo nell’adeguamento degli organici in caso di licenziamento per diminuzione di personale? Avete mai visto lavoratori licenziati al lavoro e con lo stipendio in attesa del giudizio? Io li ho sempre visti a casa oppure a protestare ai cancelli della fabbrica o in piazza o davanti alla sede della Regione. Insomma, le lungaggini e l’alea del giudizio ricadono sui lavoratori non sulle imprese.
C’è poi un’obiezione di natura ordinamentale. Dove sono i servizi regionali per la riqualificazione e il reinserimento? Non si possono fare le nozze coi fichi secchi. Ichino prende a modello la Norvegia, un piccolo paese, beneficiato dai pozzi petroliferi del Mar del Nord, ma deve ammettere che qui la musica è molto diversa. Salve le Regioni rosse, ora di colore indefinito, nessun’altra sembra in grado di apprestare a breve questi servizi. Insomma, a fine sussidio la prospettiva più realistica per i lavoratori licenziati è di rimanere “a spasso”. Il che rende ovviamente poco credibile e stimolante anche l’attività (inutile) di riqualificazione.
Infine, si dice: è ingiusto il sistema attuale di doppia tutela, piena nei rapporti a tempo indeterminato nelle aziende con più di 15 dipendenti, nessuna negli altri casi. Ed è vero. Il coerente risvolto alla differenziazione delle tutele è però di estenderle a tutti i lavoratori, non di toglierle a tutti. Verrebbero così battute in radice le perfide accuse del tipo: i vecchi tutelati a spese dei giovani. A cui si vorrebbe rispondere lasciando la libertà di licenziare, così il padrone fa fuori il lavoratore anziano e prende il giovane per poi licebziare anche questo dopo qualche tempo. Ossia rovesciamo le parti: pensate che bella prospettiva, sopratutto oggi che per andare in pensione si deve lavorare sino ai 70 anni!
Ma Ichino, ne sono certo, obietta che questo non è nelle sue intenzioni. Ma se è così, se il problema non è tanto quello di togliere la tutela a tutti quanto quello di estenderla a chi non ne ha, per discutere senza opposizioni sindacali, occorre partire dall’indiscutibile dignità del lavoro e dei lavoratori per estendere a tutti le garanzie che la inverano. Finora, però, mi perdoni Ichino, non è stato così. E bene hanno fatto e fanno i sindacati a non accettare una discussione che mira a rendere tutti uguali nella riduzione dei diritti.
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