Giuseppe Aragno
Ecco un’altra opinione da sinistra sul governo Monti, pubblicata su Ilo Manifesti del 15 novembre.
Tragicommedia. Non poteva che finir così. C’è davvero l’Italia di oggi nei cori sprezzanti dei tifosi contrapposti, nei cortei che si schierano davanti ai palazzi d’un potere sempre più estraneo, come fedeli davanti agli altari, in attesa dell’immancabile “miracolo”. Nell’incredibile confusione tra liberazione e rito liberatorio, c’è la comica tragedia d’un Paese che non s’è mai veramente liberato. Che il fascismo sia stato, come scrisse lucido Gobetti, l’autobiografia degli italiani, ora sì, ora si vede chiaro in questo surrogato di liberazione, che ci fa più servi in un inevitabile crepuscolo della democrazia. È vero, Berlusconi cade - e questo non è certo un male - ma a chi torna ai ritmi del poeta latino - nunc est bibendum - il vino va alla testa e tutto si confonde nel gioco delle parti. Cade, sì, ma per mano di lanzichenecchi della finanza e di squallidi capitani di ventura come Sarkozy e Merkel, che l’hanno detto chiari e minacciosi a Papandreou: se si rompe il giocattolo, si torna all’Europa dei conflitti. Cade e l’Italia fa festa o protesta; in piazza c’è chi l’ha combattuto, votando opposizioni complici che non l’hanno mai inchiodato al conflitto d’interesse, e chi l’ha liberamente eletto, esaltato e spesso idolatrato; settori di società così vasti e così variamente connotati, che parlare ancora di “società civile” non sembra avere senso. Brinda, fa festa o protesta, l’Italia, ma è un’Italia che avvilisce se stessa senza arrossire e conferma così di aver perso, col senso del pudore, la voglia di ragionare col senso critico che distingue gli uomini liberi dai servi sciocchi. Un polverone sollevato ad arte per coprire la miseria morale di una uscita dalla crisi di governo che, da qualunque parte la si guardi, fa a pugni con i principi della democrazia.
Morto il re, viva il re, ma operai e docenti stiano allerta. Il nuovo che avanza ha già detto basta alla nefasta influenza marxista e al suo «arcaico stile di rivendicazione che è un grosso ostacolo alle riforme»e «finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati». La ricetta è il solito veleno - il «vincolo della competitività» - e s’è «visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili».
In fabbrica, quindi, flessibilità e mano libera al signor padrone e, in quanto alla formazione, basta col valore legale del titolo di studio e via con l’incubo americano: il figlio del ricco borghese che studia a Milano vale il doppio del cocciuto figlio di poveracci che va a scuola a Canicattì. Che ci va a fare? Lo studente non conta niente, vale il nome dell’istituto. Ci sono lauree e pezzi di carta in un mondo in cui chi ha i quattrini per farlo si costruisce la scuola e l’università. Chi decide è il mercato…
Così, Mario Monti, sul Corriere della Sera del 2 gennaio scorso. Lo sanno tutti, ma fingono di non sapere: dopo un lungo scontro c’è un armistizio, ma tutto avviene nello stesso campo: la trincea è quella del peggior capitalismo. Nulla a che vedere con i diritti e la fatica della povera gente, costretta con un colpo di mano a pagare il prezzo d’una crisi di cui Monti è responsabile quanto Berlusconi. Monti, sì, che, guarda caso, è stato International Advisor della Goldman Sachs, ha libero accesso al chiuso Gruppo Bildeberg, è membro stimato della Commissione Trilaterale creata da Zbigniew Brzezinski e Rockefeller e ha partecipato in prima linea, come Commissario europeo per l’economia, alla creazione del mostriciattolo che ci si ostina a chiamare Unione europea.
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