Piero Di Siena
Pubblichiamo oggi la seconda parte (la prima ieri) di un’interessante riflessione. apparsa su “Alternative per il socialismo”, che individua nel lavoro l’elemento centrale per la ricostruzione della sinistra.
Non deve sfuggire che far discendere da una rinnovata rappresentanza del mondo del lavoro, nelle condizioni date dai processi di globalizzazione, il progetto di ricostruzione di una sinistra politica, mette a nudo tutte le difficoltà dell’impresa. Nel corso dei due secoli che abbiamo alle spalle il movimento operaio in Europa ha potuto costruire la sua soggettività politica presentandosi quale parte integrante della civilizzazione europea, come l’erede più autentico del processo di secolarizzazione che aveva accompagnato la genesi del capitalismo. Movimento operaio e democrazia, come si è detto, hanno proceduto di pari passo. Oggi, il fatto che le economie guida dello sviluppo capitalistico inglobano realtà esterne all’Occidente, come quella cinese e indiana, le quali si sono riorganizzate – dopo la fine del colonialismo e la crisi del comunismo mondiale – attorno a culture e a processi di civilizzazione innervati di dispotismo orientale o insidiati da forme di fondamentalismo religioso, rendono molto problematico e complesso la ripresa su scala globale di una lotta che restituisca al lavoro la funzione di emancipazione di sé e dell’umanità intera. Qual è, insomma, il sistema di valori progressivo fuori dall’Occidente che possa alimentare un cammino di libertà che scaturisca dall’emancipazione del lavoro salariato? Che il mondo non sia inevitabilmente destinato a quello “scontro di civiltà” di cui scriveva Huntington all’indomani del crollo del socialismo reale lo dimostrano i movimenti che hanno dato vita alla “primavera araba”, nonostante le loro battute d’arresto, le loro contraddizioni e l’impotenza della sinistra europea (assordante il suo silenzio sulle vicende di Libia e Siria) a svolgere una qualsiasi funzione in quello che sta accadendo.
È questo problema che riassegna di nuovo soprattutto all’Europa, al suo mondo del lavoro, il compito di trovare il bandolo per ricostruire una nuova sinistra, e con essa una nuova stagione della democrazia, all’altezza dei problemi e delle contraddizioni del capitalismo globale. Ciò potrà essere possibile, tuttavia, a patto che si sia consapevoli di essere parte di un processo mondiale che impone di riarticolare obiettivi e funzione.
La centralità del ruolo dell’Europa
Si ritorna, dunque, alla sinistra europea e al ruolo dell’Europa, di quella parte del mondo in cui il movimento operaio e il socialismo sono nati, e in un certo senso sono rimasti circoscritti, se si fa eccezione della fallimentare esperienza, almeno nei suoi esiti, del comunismo mondiale,
L’Europa è un continente a rischio: a rischio di emarginazione a seguito dei processi di ristrutturazione economica e geopolitica prodotti dalla crisi, che vedranno Cina, India e Brasile consolidare il loro primato sulla scena mondiale; a rischio di tenuta democratica come dimostrano l’affermazione di tendenze xenofobe e populiste, che in Italia, per di più, sono saldamente insediate nella compagine di governo e trovano nello stesso presidente del Consiglio, nella sua cultura politica, nel suo stile di vita da satrapo orientale, la maggior espressione; a rischio di declino economico se i suoi governi non riescono a individuare una nuova politica economica che ridisegni ruolo e funzione dell’ Europa nella divisione internazionale del lavoro che emergerà dalla crisi.
Per queste ragioni la ricostruzione della sinistra in Europa deve trovare la sua ragion d’essere nella rappresentazione di una forza lavoro che prende coscienza di essere parte di un lavoro ormai globalizzato, di essere una parte i cui nessi con il tutto sono inscindibili. Ma ciò non può che procedere di pari passo con la costruzione di una nuova soggettività politica, capace di tessere alleanze sociali e politiche fondate sul fatto che, per fronteggiare la crisi, l’Europa ha bisogno di un nuovo compromesso tra capitale e lavoro, diverso nei contenuti ma della stessa portata di quello che a partire dal secondo dopoguerra ha portato alla costruzione dello Stato sociale e delle tutele per il mondo del lavoro che abbiamo conosciuto in Europa, che abbia al centro un nuovo modello economico in cui redistribuzione del reddito, compatibilità ambientale, investimenti in sanità e istruzione, e rapporto tra pubblico e privato fondato su una politica dei beni comuni, innovazione di prodotto dell’industria europea a partire dal settore dell’auto e della mobilità collettiva ne diventino i fondamenti.
E’ in questa prospettiva che il lavoro deve tornare a farsi partito, per diventare il protagonista della fondazione di una nuova democrazia che sappia riconnettere partecipazione e rappresentanza. Questo è, nella situazione attuale, il problema più controverso e arduo. In Italia, dire “partito” per quelli delle generazioni che hanno conosciuto la Prima Repubblica e, in generale, la costruzione dei welfare nell’ambito degli Stati nazionali significa più o meno consapevolmente pensare a una sorta di ritorno al modello dei partiti di massa che dominarono in quella fase storica. Ma, per coloro che hanno solo esperienza degli ultimi venti anni, “partito” e “politica” coincidono con quelle formazioni cesaristico-plebiscitarie che hanno accompagnato l’affermarsi della cosiddetta “democrazia governante” imposta dalla rivoluzione neoconservatrice e neoliberista. Per il lavoro oggi farsi partito significa esattamente collocarsi oltre queste due prospettive. Di quale partito debba trattarsi e quale sistema di partiti debba contribuire a suscitare è difficile dire. Due cose, tuttavia, dovrebbero essere chiare. La prima è che il lavoro può farsi partito se contemporaneamente torna a essere in una prospettiva europea fattore costitutivo di una statualità che lo abbia a fondamento. Per questo aspetto, perciò, il suo farsi parte diventa condizione della riforma dell’intero sistema politico. E’ questo il senso del carattere centrale che per il nostro Paese assume la battaglia per la Costituzione e la sua completa attuazione. In secondo luogo, la ricostruzione di luoghi della partecipazione non può prescindere da un’azione che ridia autonomia e restituisca dignità ai luoghi della rappresentanza, mortificati e asserviti nei lunghi anni del neoliberismo dominante.
Ci aspettano un lungo cammino e compiti che impegneranno probabilmente una generazione. Quindi, proprio per questo, mai come oggi è importante che ciò che resta dell’eredità della sinistra del secolo scorso si appresti a passare un testimone che sia fatto insieme di apertura al nuovo ma anche di valori e conquiste che non possono essere smarriti.
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