Fausto Bertinotti - Il Manifesto 23.9.2011
Come stimolo alla riflessione sulla crisi, proponiamo la sintesi di un intervento di Fausto Bertinotti.
Rossana Rossanda ha aperto una discussione che si rivela di giorno in giorno di più stringente necessità a sinistra. Sono venute interlocuzioni assai interessanti sia sul terreno delle cause che hanno aggravato la crisi dell’Europa che dell’esplorazione di interventi programmatici per affrontarla fuori dalla disastrosa moneta corrente. In qualche caso, secondo me utilmente, si è sfidata la nuova ortodossia della parità di bilancio fino a prospettare uscite radicali. Tuttavia a me pare che la discussione dovrebbe prendere anche un’altra piega. Possiamo ancora affrontare il tema come se vivessimo in un’epoca democratica, con in campo una politica dotata di una qualche autonomia e una sinistra capace di influenzare le scelte di fondo? Temo di no. In questo caso si potrebbe forse seguire questo filo di ragionamento.
Ciò che la rivolta ha intuito dovrebbe costituire la base anche della rinascita di una politica e di un agire politico autonomi dal sistema economico-sociale e dal sistema di potere politico che in esso si è venuto costituendo. La rivolta ha intuito che, per riaprire la partita, bisogna far saltare il banco, cioè mettere in discussione radicalmente le decisioni politiche che vengono assunte dal potere costituito e contestare i luoghi e le forme con cui esse vengono assunte. La crisi è un’occasione. Ma bisogna capire anche per chi. L’occasione è sfruttata fino in fondo dalle classi dirigenti per fare tabula rasa dell’Europa del compromesso sociale e democratico. Un panorama sociale tutt’affatto diverso ne sta prendendo il posto. È come se tutto ciò che si era venuto accumulando negli anni della restaurazione modernizzatrice, e accelerato negli ultimi mesi, fosse fatto precipitare in quest’agosto devastante. (…)
I governi europei hanno adottato tutti la stessa terapia. Se welfare e potere contrattuale dei lavoratori sono di ostacolo alla competitività non resta che tagliarli. Persino i tempi dei rientri e la quantità dei tagli escono come da una calcolatrice, una calcolatrice con la maiuscola. I tasti in Europa sono comandati dalla Bce, dall’asse tedesco-francese e, se si vuol essere impersonali, dai mercati finanziari. (…)
I decreti di Ferragosto esplicitamente confermano il passaggio dallo stato di eccezione (il rischio del precipitare della crisi finanziaria dello Stato) alla regola di uno Stato senza più sovranità e democrazia, niente di meno che attraverso una modificazione della Costituzione. Lo ha colto bene Rino Formica, che ha scritto: «I Costituenti assegnarono ai partiti politici il ruolo di corpo intermedio tra Stato e cittadini e di parte dello Stato democratico, perché doppio era l’esercizio della sovranità del popolo: nei partiti per rinnovare lo Stato (art. 49) e nello Stato per costruire una società tesa alla realizzazione dell’eguaglianza (art. 3). I Costituenti furono espliciti nell’indicare una scelta in contrasto con la tradizione liberale».
Cosicché non può risultare più evidente il vero e proprio rovesciamento della filosofia della Costituzione repubblicana con l’auspicata introduzione di un vincolo esterno capace di impedire il perseguimento proprio del compito assegnato dal Costituente alla Repubblica in uno dei suoi articoli fondativi, l’articolo tre. (…)
L’aria della rivolta è la risorsa di oggi per non soccombere. L’intuizione che la caratterizza risponde ad una precisa lettura della fase in Europa, risponde ad un giudizio sulle risposte che le classi dirigenti europee nel capitalismo finanziario globalizzato stanno dando alla crisi: il tavolo delle decisioni su cui esse sono state assunte ha demolito la democrazia e negato ogni significativo spazio di compromesso sociale e di negoziato; dunque, è il tavolo che deve essere fatto saltare, affinché si possa aprire un nuovo corso della democrazia, della politica e dell’organizzazione della società.
In Italia due movimenti vanno in direzione opposta. Da un lato, il processo politico istituzionale che accompagna acriticamente la grande ristrutturazione capitalistica; dall’altra, i movimenti di lotta e di mobilitazione che, esclusi da questa costruzione neoautoritaria, la contestano e la rifiutano. A separare i due movimenti c’è la costruzione del recinto cui abbiamo accennato, che riduce la politica ad attività servile.
L’uscita di scena della sinistra è riassunta nella sua incapacità di spezzare il recinto fino al punto di non sapere nemmeno vederlo. Nell’agosto del golpe bianco essa non ha saputo dire «No» alla manovra. Aver accettato di discuterne i contenuti, quand’anche per criticarli, all’interno della sua cornice (che è poi la sua filosofia, cioè la sua ispirazione di fondo) e dei tempi di approvazione dettati dall’oligarchia di comando ha fatto della sinistra un desaparecido, un ente pressoché inutile (altri, per composizione sociale, per interesse e per cultura economica e politica, sono adatti a compiere questa funzione assai più efficacemente, a cominciare dai grandi borghesi). Ogni discorso politico autonomo sarebbe dovuto cominciare dal famoso «Preferirei di No» di Bartleby. Un irriducibile «No» a un impianto di politica economica fondato sull’assunto che il welfare state e il potere contrattuale dei lavoratori sono la causa del debito pubblico e del deficit di competitività delle nostre economie. Accettare la sovranità del vincolo esterno equivale all’accettazione dell’eutanasia della sinistra e dell’accettazione della sua collocazione all’interno del recinto. Se il compito è, come è, la rottura del recinto, allora esso non può che poggiare sull’opposizione al vincolo esterno di un vincolo interno (ricordare la lezione di Claudio Napoleoni), sulla sua assunzione a fonte della rigenerazione dell’autonomia della politica e della sinistra.
È il vincolo interno, del resto, ciò che invocano, più o meno esplicitamente e consapevolmente, tutti i movimenti in campo: una poderosa redistribuzione dei redditi a favore del salario in tutte le sue forme ipotizzabili, diretto, indiretto e differito per coloro che lavorano e sociale per chi non lavora; la costruzione di un sistema di diritti esigibili finalizzati al pieno sviluppo della persona umana in una cittadinanza universale rispettosa delle differenze; la difesa e valorizzazione della natura fino a configurarla come levatrice di un diverso rapporto tra natura, produzione, consumo e ricerca; la messa in discussione dell’attuale rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro. Abbiamo così indicato solo alcuni dei campi in cui può costituirsi il vincolo interno.
Aprire una radicale lotta politica e culturale per la sua possibile assunzione a fondamento di un nuovo corso è diventato improcrastinabile. Si tratterebbe di accompagnare con questa ricerca i movimenti che respirano l’aria della rivolta, la quale è la sola che, a sua volta, può alimentare quella rottura da cui possa rinascere un pensiero critico radicato nell’esperienza sociale, un processo di trasformazione e la resurrezione della sinistra. La rottura del recinto ne è oggi la prima condizione, la democrazia la sua chiave di volta.
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