Roberto Ciccarelli - Il Manifesto 29.9.2011
Sono nelle università, nella ricerca, nell’editoria, nell’industria dello spettacolo. E hanno deciso di uscire allo scoperto.
«Terziari, anzi quartari». Luciano Bianciardi definì così gli antenati dei lavoratori della conoscenza che oggi incrociamo nelle redazioni, a teatro o nelle università, fanno la trafila di stage e tirocini per un pugno di mosche, sommano tre lavori per finire la loro giornata a spillare birra al bancone di un bar. La condanna dell’autore del Lavoro culturale fu senz’appello: sono «vaselina pura».
Sono carrieristi, diventeranno «vescovi» e, ciò che è peggio, non esiste metro di giudizio possibile per misurare il valore del loro lavoro. Non producono dal nulla, come gli artigiani, e non trasformano qualcosa, come gli operai. Il «quartario» era un pesce boccheggiante, un acrobata del nulla e il suo unico interesse stava nell’ungere le ruote per arrivare per primo a soddisfare le ansie e le voglie del suo «Papi» di riferimento.
A quarant’anni dalla scomparsa di questo geniale esploratore delle (psico)patologie del lavoro immateriale, oggi abbiamo compreso che la cultura, come la conoscenza, producono oggetti di nuovo tipo: prestazioni linguistico-virtuosistiche, saperi, immaginario, capacità di costruire soggettività, senso, interpretazione e mediazioni. Molti di loro non svolgono più un’attività lavorativa dentro l’impresa (quella editoriale, nel caso di Bianciardi) o per la pubblica amministrazione, ma offrono un servizio, una consulenza o una prestazione «per conto terzi». Hanno una partita Iva, sono soci di una piccola impresa, un contratto precario o, più banalmente, lavorano in nero.
Da tempo si parla di loro come del «Quinto Stato». I «quinari» svolgono un’attività non riconducibile al contratto subordinato a tempo indeterminato nel pubblico, come nel privato. Stando ai dati del 2010 in Italia ci sono almeno 6 milioni di persone che lavorano a supporto dell’impresa, trasmettono saperi, conoscenze, informazioni, oppure si occupano dell’assistenza, mentre i dipendenti sono oltre 14 milioni. Ci sono poi altri 2 milioni persi nella disoccupazione, nel lavoro in nero o informale, nell’inoccupazione pura e semplice. Un terzo della forza lavoro attiva vive a ridosso di un’altra area sociale composta da circa 5 milioni di migranti, di cui almeno un milione di badanti che effettuano un lavoro domestico e suppliscono alla liquidazione dell’assistenza pubblica. Esistono dunque undici milioni di persone che non possiedono un lavoro stabile, dipendente e certificato e quindi sono estranei allo status del cittadino bianco, adulto e responsabile. Migranti e indipendenti possono essere entrambi considerati «apolidi»: pagano le tasse, ma non vedranno mai una pensione; vivono nella zona grigia dove lavoro autonomo e dipendente vengono associati nella «para-subordinazione» e non hanno diritto al reddito, alla genitorialità o alla malattia. Più che uno status unitario, il Quinto Stato rappresenta la condizione generale della società.
L’archeologia sapientemente tratteggiata da Bianciardi ne ha intravisto la nascita, limitandola però agli italiani e al loro «lavoro culturale». Negli anni Ottanta e Novanta, il consolidamento del Quinto Stato ha invece rivelato che quella dei freelance, letteralmente lance libere o spade in affitto alla caccia di un ingaggio migliore, è la condizione generale degli italiani, come degli stranieri. Oggi che è fallita la prospettiva della «società della conoscenza», e la precarietà è la condizione trascendentale del lavoro, il Quinto Stato vive nella stessa situazione del proletariato in altre epoche. Nei suoi primi anni di vita non è stato però capace di darsi forme politiche generali, né di riflettere sulle ragioni profonde che spingono i sindacati e la sinistra a considerarlo solo come «precariato» e la destra o Confindustria come un «libero imprenditore».
Il limite che ha caratterizzato la condizione nascente del Quinto Stato è il suo individualismo che non ha permesso di riconoscere le potenzialità di una condizione generale. I suoi rappresentanti non sono stati nemmeno capaci di riconoscere l’aspetto determinante del lavoro della conoscenza - che resta il cuore del Quinto Stato : la cooperazione nella produzione, nella cura e nelle relazioni. Non tutto però è perduto, anche perché l’esperienza del Quinto Stato è agli inizi. Tra le pieghe di una crisi infernale, sempre più divisi tra indignazione e desideri di rassicurazione, c’è ancora la possibilità di riconoscere alla vita la dignità dell’indipendenza, di rivendicare una riforma della cittadinanza e del Welfare, la capacità di costruire strumenti di auto-tutela e una nuova concezione delle istituzioni come «Beni comuni». Il teatro Valle occupato è il prototipo di questa nuova civiltà.
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