Come vanificare l’art. 18 senza abrogarlo

17 Luglio 2011
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Associazione nazionale giuristi democratici

Proseguiamo a dar conto dell’attacco della legge finanziaria al diritto di difesa in giudizio dei lavoratori con questo articolo apparso su Il Manifesto di venerdì scorso.  

Non è necessario abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per rendere sempre meno attuale ed esigibile il diritto al lavoro su cui si dovrebbe fondare la nostra Repubblica. Basta renderne sempre più difficile l’esercizio. Dopo l’introduzione del cosiddetto Collegato Lavoro, che ha creato un vero e proprio percorso ad ostacoli per i lavoratori che intendono impugnare licenziamenti, trasferimenti, contratti a termine, il decreto legge n. 89/2011 ha stabilito che il lavoratore che sia costretto ad adire il Tribunale del Lavoro per tutelare i propri diritti deve pagare lo Stato come in qualunque altra causa civile (anche se il contributo è dimezzato rispetto all’ordinario).
La gratuità del processo del lavoro era prevista sin dalla legge 319/58, successivamente confermata dalla legge 533/73, ed ha rappresentato un caposaldo del nostro stato di diritto, fotografando la situazione di parte debole del lavoratore al quale deve essere garantita la possibilità di tutelare i propri diritti, in applicazione degli art. 3, c. 2, art. 4, c. 1, art. 24 e art. 35 della Costituzione. Con l’entrata in vigore del Decreto Legge 98/2011, dal 7 Luglio 2011, tutto il sistema salta ed ogni controversia di lavoro viene assoggettata, al pari delle altre cause civili ordinarie, al versamento di un contributo unificato, che varia in base al valore della causa.
Si tratta di una modifica epocale, che comporterà una drastica riduzione del contenzioso, anche perché i lavoratori agiscono in giudizio il più delle volte per ottenere il pagamento di retribuzioni, o per conservare il posto di lavoro che hanno perso e non hanno la possibilità economica di anticipare le spese della causa.
Solo per fare alcuni esempi, il contributo dovuto per una causa di valore indeterminato (per esempio l’impugnativa di un licenziamento, l’illegittimità di un contratto a termine e così via) è ora pari ad euro 225,00; il lavoratore che chieda il pagamento di arretrati o differenze retributive per importi compresi tra 52.000 e 260.000 euro dovrà pagarne 330,00, e così via.
È evidente che, una volta violato il principio della gratuità, il contributo richiesto ai lavoratori sarà aggiornato periodicamente in aumento come accade per gli altri tipi di contenzioso (il Dl n. 89 ha aumentato i contributi di circa il 20%). Il Decreto Legge n. 89/2011 presenta aspetti di evidente incostituzionalità, ed è necessario ed indispensabile attuare immediatamente una campagna di informazione capillare nei confronti dei cittadini, per far comprendere la gravità di quanto sta accadendo, che è stato sostanzialmente ignorato da tutti gli organi di informazione e dalle forze politiche e sindacali.

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