Andrea Pubusa
La battaglia per i referendum è stata vinta anzitutto perché i quesiti, nella loro essenza, erano semplici. Si vuole che l’acqua sia un bene commerciabile come gli altri? O si preferisce ch’esso, pari all’aria per la sua rilevanza, sia mantenuto nella sfera pubblica? Di più, siccome ciò che qualifichiamo “pubblico” si sostanzia in enti e nei gestori di essi, vogliamo che questo bene più che pubblico sia “comune”? Ossia vogliamo che sia connesso strettamente, anche nella titolarità, alle persone per le quali è un bene essenziale? I cittadini hanno risposto a questo quesito semplice, semplice in modo semplice semplice: vogliamo che l’acqua sia un bene comune, un bene nostro come comunità e come singoli. Non vogliamo neppure ch’essa sia nella disponibilità di carrozzoni pubblici, tipo Abbanoa.
Elmentare era anche il quesito sul nucleare, dove i cittadini hanno avvertito che c’è un punto irrisolto: le conseguenze possibili di incidenti e gli effetti permanenti (milioni di anni) per le scorie. Chi ragiona con semplicità e senza interessi (i no erano mossi dal desiderio di affari milionari) non può non rispondere che, fintanto che queste due controindicazioni non sono risolte in modo accettabile, con rischi accettabili, il nucleare è meglio lasciarlo nel campo della ricerca, ma escluderlo da quello applicativo e produttivo.
Semplice, semplice anche l’ultimo quesito, quello sul legittimo impedimento. Si può ammettere, in violazione delle conquiste dello Stato democratico e di diritto, che ci siano potenti affrancati dalla legge penale, o questa dev’essere uguale per tutti? A domanda semplice, risposta semplicissima: l’eguaglianza degli uomini davanti alla legge è uno dei principi fondamentale del costituzionalismo moderno, ne è la base, eliminarlo significa tornare ad epoche storiche pre-rivoluzione francese e a visioni pre-illuministiche.
Queste considerazioni devono indurre a non avventurarsi in referendum con quesiti complessi, quale era quello sulla fecondazione assistita. Il quesito, al di là della formulazione scritta, dev’essere riassumibile in una domanda elementare, che si presti ad un sì e ad un no secchi.
L’esperienza referendaria pone anche un altro problema. I padri costituenti introdussero il quorum di validità del 51%, trattandosi di abrogare il frutto di una deliberazione del Parlamnto, la legge, ritenuta per lungo tempo espressione della sovranità delle assemblee rappresentative, come riflesso di quella popolare. Di qui anche la differenza col referendum costituzionale, che si inserisce nella fase di approvazione della legge e dunque è privo di quorum (ah! se se lo fossero ricordato i consigliori giuridici di Soru al tempo della Statutaria!). Ma oggi prende risalto un fenomeno non considerato dai costituenti: l’alto astensionismo. Ed allora bisogna bilanciare questo fenomeno di disinteresse fisiologico per la cosa pubblica, in modo da non penalizzare la cittadinanza attiva. I rimedi possono essere di due tipi: o ridurre il quorum in modo da compensare all’origine la fisiologica astensione, o eliminarlo del tutto. Quando presiedevo la Prima Commissione del Consiglio regionale (Giunta Melis - 1984-1989) fui primo frimatario della proposta di riforma e integrazione della vecchia legge sarda sui referendum. Allora scelsi la prima strada. Ed infatti, nel referendum del maggio scorso, unici fra le regioni italiane, abbiamo votato in un referendum consultivo o, meglio, d’indirizzo, sul nucleare e il quorum era del 33%. Oggi, se dovessi rifare la scelta, opterei per la soppressione del quorum. Senza quorum la battaglia è aperta e paritaria, solo la cittadinanza attiva dell’uno o dell’altro campo decide. Ecco una riforma semplice, semplice da suggerire al Ministro per la semplificazione o alle forze d’opposizione. Insomma, l’idea è che il referendum sia uno strumento prezioso per eliminare leggi sgradite e per dare un indirizzo popolare diretto al governo e al parlamento. Và dunque difeso e valorizzato. In Sardegna l’abbiamo fatto con la riforma del 1986 e col referendum oppositivo abbiamo bocciato la Statutaria soriana, che voleva, invece, sterilizzare lo strumento referendario all’origine, portando le firme per la sua richiesta, inizialmente, a 50.000 (proposta della Giunta) e poi dalle 10 attuali alle 15.000 (proposta della Commissione consiliare).
L’esito dei referendum pone poi grandi questioni politiche. Domenica e lunedì gli italiani hanno decretato la fine, più che di un governo, di una fase politica, quella del liberismo sfrenato e del privatismo, che si irradia dalla Comunità europea fin nei più piccoli comuni. L’idea è chiara: lo Stato non deve confezionare i panettoni, ma deve assicurare una gestione pubblica dei beni e dei servizi essenziali. Lo Stato non può avere le mani legate nelle gravi crisi di comparti e settori produttivi. All’albero della concorrenza non possiamo impiccare milioni di lavoratori. Il segnale non è solo alla destra, ma anche ad una certa sinistra, che è stata contaggiata dalla sbornia liberista. Si sta smantellando tutto: la scuola, la sanità, i trasporti, i servizi pubblici. La mano invisibile del mercato e la concorrenza sono - si dice - la medicina per tutti i mali, dalle inefficienze alle alte tariffe. Ma guardate cos’è successo per il trasporto aereo in Sardegna? Si viaggiava cento volte meglio con la vecchia Alitalia coi prezzi amministrati. Sicurezza, pulizia, affidabibilità, trattamento da signori. Oggi gli aeroporti sono una bolgia e alte sono le tariffe. Della partenza e del ritorno non c’è certezza.
Ed in mare? Si è affogata, anziché bonificarla, la Tirrenia e già i privati fanno cartello. E così ecco il paradosso di una giunta regionale di centrodestra che combatte il monipolio privato, allestendo una flotta pubblica. La verità è che i privati pensano solo ai profitti e che, presto o tardi, in nome di questi rendono pessimo anche il servizio. La concorrenza? O mangi questa minestra o ti rivolgi ad un altro trasportatore uguale a me e viceversa.
Dunque, i cittadini domenica e lunedì hanno smascherato il carattere imbroglionesco del giochino liberista. Quella odierna è la società del rischio - si dice. Sì, ma a rischiare sono solo i lavoratori e i giovani di belle speranze ed eternamente precari. Amministratori e manager rischiano solo di incassare qualche milione in più o in meno fra compensi, bonus e prebende varie. Anche quando le loro gestioni sono fallimentari! Nuovi principi di un’aristocrazia che - come tutte le aristocrazie - non rischia nulla e il rischio lo accolla agli altri.
Insomma, c’è molto da riflettere su questi referendum. Il punto è ben più alto della caduta di un governo. Ciò che si vuole è un cambio di filosofia politica. E qui certamente il patrimonio della sinistra europea, quella storica non quella dei notabili degli ultimi decenni , col suo patrimonio di idee di ideali può costituire una base culturale da cui partire con spirito audcemente innovativo per un rilancio dei diritti delle persone e delle libertà. In questa prospettiva un contributo forte può venire anche dai filoni sociali del cattolicesmo e delle altre confessioni. Vengono rilanciati i principi fondamentali della nostra Costituzione, che è nata da un incontro alto fra queste culture. Come si vede, il momento non è quello della tattica, ma è l’ora della strategia, quella alta che cambia il senso comune e dà le direttrici di fondo per i prossimi cinquant’anni. Saremo all’altezza? L’importante intanto è capire che questa è la posta in gioco.
1 commento
1 Cristina
15 Giugno 2011 - 13:31
Caro professore, ha assolutamente ragione quando difende l’importanza dell’abolizione del quorum del referendum, perchè questo penalizza esclusivamente chi promuove il si, in quanto chi vuole che vinca il no ha dalla sua parte un’altra arma, oltre il voto, ed è l’astensione dallo stesso. E’ evidente lo sbilanciamento a favore di tutti quelli che vorrebbero boicottare questo magnifico strumento di partecipazione politica. Viene lasciato in mano ai cittadini, ma poi si inserisce il quorum!
In generale, proprio per il forte astensionismo registrato negli anni scorsi, io reintrodurrei l’aver esercitato i diritti politici, come requisito per la partecipazione ai pubblici concorsi perchè è un controsenso che chi scelga di non esprimere il proprio voto, poi sia in grado di curarsi degli interessi della collettività.
SI professore, con la nostra massicia partecipazione abbiamo già dimostrato di ESSERE ALL’ALTEZZA, di volerci sostituire a questo legislatore così distante, di voler nuovamente interessarci all’etica della polis. Abbiamo tutti gli strumenti per continuare ad occuparci di questo rapporto che lega cultura, storia e politica, in primis Internet. Ah si…oggi l’onorevole Stracquadanio dice “la sinistra vince su internet, perchè non fanno un cazzo”. Molto coglione e poco onorevole!
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