Ripartire dal mondo del lavoro

21 Luglio 2008
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Red

Il diritto del lavoro in Italia è scomparso da anni. Innanzi tutto perché non esiste più il processo del lavoro. Quando un giudizio dura anni, è evidente che la parte debole del rapporto, il lavoratore, viene privata dei diritti. Una forma surrettizia della soppressione anche dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Se il licenziato senza giusta causa (violazione dei doveri del lavoratore) o senza giustificato motivo (ragioni organizzatrice dell’impresa, come la diminuzione di commissioni) non viene subito reintegrato nel posto del lavoro, l’art. 18 è sostanzialmente morto. E poi chi s’imbraca in una causa di anni per differenze retributive o per ottenere la mansione superiore effettivamente svolta per oltre tre mesi non per sostituire altro lavoratore assente? Da che mondo e mondo la mancanza di effettività della tutela fa venir meno anche quei diritti sanciti dalle leggi.
Ora il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi annuncia una vasta “deregolazione” delle forme contrattuali e di molti adempimenti a carico delle imprese, comprese le sanzioni per chi viola le norme sulla sicurezza sul lavoro. Proposte accolte con forti perplessità dalle parti sociali. “Dissenso radicale” è stato espresso dalla Cgil, attraverso il segretario Guglielmo Epifani. Ma anche il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, solitamente prudente, è preoccupato e boccia gli “atti unilaterali sul mercato del lavoro”.
Ecco, in estrema sintesi, le proposte di Sacconi:
1) Cancellazione della legge che impone procedure rigide alle imprese per le dimissioni volontarie dei lavoratori. In sostanza, l’utilizzo di moduli prestampati e numerati che impediscono di far sottoscrivere le dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione .Queste norme furono introdotte dal governo Prodi per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco.
2)  Abolizione del libro paga e del libro matricola.
3)  Modifica del Testo unico sulla sicurezza, abolendo le sanzioni più severe a carico delle imprese, anch’esse introdotte dal governo Prodi sull’onda delle morti sul lavoro alle acciaierie Torino.
4)  Cancellato il divieto per i datori di lavoro di svolgere visite mediche prima delle assunzioni.
5)  Reintroduzione del lavoro a chiamata e semplificazione per l’uso dei voucher prepagati per pagare prestazioni accessorie e occasionali.
6)  Deregolamentazione del part time, consentendo ogni tipo di accordo individuale.
7)  Contratti a termine: ripristino per le parti sociali di derogare ai limiti sui tetti, causali e di durata massima, oggi fissata in 36 mesi. Insomma, reintroduzione del precariato a tempo indeterminato. Se si pensa che nel lontano 1962 fu introdotta una legge che trasformava automaticamente in rapporto a tempo indeterminato quel rapporto a termine, che per un sol giorno avesse superato la scadenza. Né si poteva ricorrere al trucchetto di assumere altri lavoratori di rimpiazzo.
Se poi si tiene conto dell’attacco al contratto nazionale risulta chiaro che l’obiettivo del governo è direttamente il sindacato. Queste organizzazioni, che pur con tutte le manchevolezze, sono l’ultimo baluardo, dopo la scomparsa dei grandi partiti della sinistra dal panorama politico italiano, dei lavoratori.
Da par suo, un altro “socialista” come Sacconi, l’ineffabile Brunetta, più che cercare strumenti per dare efficienza alle amministrazioni, combatte contro i dipendenti pubblici. Vuole, in fondo, togliere dal panorama legislativo quelle garanzie, che se non soppresse, rimangono un riferimento per i lavoratori delle imprese private, com’è avvenuto per tutto il primo Novecento fino allo Statuto dei lavoratori del 1970 e fino al rito del lavoro del 1973. Un inseguimento dei diritti durato circa un secolo.
Ora, questa situazione impone senza dilazione alla sinistra una domanda elementare: ridare al Paese una forte organizzazione politica che faccia del mondo del lavoro il suo riferimento fondamentale. Certo, è innanzitutto la globalizzazione ad aver messo in ginocchio i lavoratori d’occidente, mettendo in concorrenza con questi ultimi le sterminate masse degli altri Paesi. Ma quanto, in questo processo di eliminazione dei diritti dei ceti deboli, dipende dalla scomparsa di forti partiti dei lavoratori?
Di fronte a tutto questo la conclusione del Congresso del PdCI al canto di bandiera rossa dà, in musica!, il senso della lontananza dei resti del PCI dalla realtà. Il movimento operaio ha certo avuto i suoi simboli, ma è sorto nella concretezza dello scontro anzitutto nei luoghi di lavoro: il salario, l’orario, il suffragio universale, ecc. Proprio quel mondo da cui, in tutti i sensi, fugge o è lontana l’attuale dirigenza della sinistra, a cui interessa molto più la lotta interna alla conquista della titolarità di simboli partitici, sempre più evanescenti, ma che possono ancora garantire un’elezione o un posto di sottogoverno, magari a livello locale.
Dalla compressione dei diritti dei lavoratori ci viene invece un’indicazione semplice e chiara: ripartire dalla concretezza dei problemi del lavoro. Così come dall’attacco alla democrazia e ai diritti dell’uomo e della donna, col risorgere del razzismo e di ogni discriminazione verso i più deboli, ci viene il monito a riprendere un impegno sui grandi temi della libertà e dell’uguaglianza. Insomma, sono le cose ad indicare alla sinistra il che fare. Basta finalmente concentrarci su di esse, anziché sulle lotte di fazione.

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