Aldo Moro, il suo Memoriale e la sua politica

16 Maggio 2011
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Gianluca Scroccu

“Perché io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa”. Così scriveva Aldo Moro a Zaccagnini in una delle sue lettere dalla “prigione del popolo” dove l’avevano rinchiuso le Brigate Rosse. In quel carcere improvvisato il politico democristiano non scrisse solo lettere, ma anche un Memoriale di 245 pagine. Tale è la consistenza, o meglio quello che rimane, delle tre diverse versioni che ci sono pervenute di uno dei documenti più drammatici della storia dell’Italia repubblicana. È in quei cinquantacinque giorni del marzo-maggio 1978 del sequestro più famoso della politica italiana del Novecento, dopo quello di Giacomo Matteotti del 1924, che si devono ricercare molte delle ragioni della crisi attuale, a partire dalla dissoluzione dell’agire collettivo del nostro Paese e dall’affiorare di quella frantumazione sociale da cui è emerso un individualismo sempre più marcato. In occasione dell’anniversario della sua uccisione, data indicata anche come giornata della memoria nazionale delle vittime del terrorismo, appare quanto mai preziosa la lettura del volume di Miguel Gotor Il Memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, pp. 624, euro 25). L’autore affronta con determinazione una missione difficile: tornare su carte scottanti con criteri scientifici e provare a scavare su alcune delle pagine più delicate della nostra storia. Gotor riesce a farlo con la precisione del filologo, dimostrata già in occasione della pubblicazione delle lettere di Moro dalla prigionia, che mette a confronto documenti, versioni differenti, tagli e mancanze improvvise, ma anche con l’acume dello storico che vuole analizzare le ragioni che hanno portato al collasso del sistema dei partiti di cui lo statista democristiano era uno dei massimi rappresentanti. Un lavoro paziente e scrupoloso, tra fotocopie di manoscritti e dattiloscritti originali, venuti alla luce in tre fasi differenti: a Roma durante il sequestro col quinto comunicato il 10 aprile del 1978; in via Monte Nevoso a Milano il 1 ottobre del 1978, quando una cinquantina di fogli vennero rinvenuti dagli uomini dell’antiterrorismo guidati da Dalla Chiesa; nel 1990, ancora nel capoluogo lombardo e sempre in quello stesso appartamento, in quel momento in fase di ristrutturazione.
E poi ci sono le domande che Gotor si pone, e che con lui si fa il lettore: perché le Br non hanno diffuso da subito quelle rivelazioni che potevano essere funzionali al loro folle disegno politico? Le loro spiegazioni in tal senso sono state sempre imbarazzate e fragili, nonostante abbiano goduto di uno spazio spropositato in tv e nella stampa. Quali ricatti, depistaggi, censure, conflitti più o meno oscuri tra poteri statali si celano dietro documenti diffusi in maniera così singolare? Perché sarebbero passati ben dodici anni prima di ritrovare nella medesima abitazione altri incartamenti, peraltro proprio in concomitanza con l’esplodere della questione Gladio a cui nel documento si faceva riferimento?
Mancano all’appello molti degli scritti che il prigioniero vergò con disperata lucidità durante la sua prigionia, da diverse lettere sino all’autografo stesso del Memoriale, anche se per fortuna almeno il materiale disponibile si trova oggi ben conservato nell’archivio di Rebibbia dov’è stanziata una delle sedi della Corte d’Assise del Tribunale di Roma. Ma i silenzi e gli strani ritrovamenti celano verità nascoste che bisogna riportare alla luce. Per non parlare, come si ricorda nel libro, delle riprese a circuito chiuso degli interrogatori del presidente della DC di cui parlò lo stesso Flaminio Piccoli in maniera criptica nel 1987. Ammissioni parziali o pronunciate in maniera più o meno indiretta, simulazioni e dissimulazioni con i fantasmi di Gelli, della P2, di Andreotti e di Pecorelli che si sovrappongono tra le varie ombre che avvolgono queste carte. Tutti elementi che fanno ipotizzare a Gotor, senza cedere alle lusinghe delle retoriche dei complotti ma sempre e solo sulla base della ricostruzione filologica e dell’incrocio delle fonti, la sensata ipotesi dell’esistenza di un “altro” Memoriale contenente pagine censurate perché dal significato troppo dirompente, forse più per l’Italia di allora che per quella di oggi: il golpe Borghese, la fuga del nazista Kappler, il cosiddetto “lodo Moro”, un accordo firmato insieme ai rappresentanti dell’OLP per evitare attentati sul suolo italiano.
Questo libro conferma che il caso Moro fu sicuramente una tragedia italiana, come l’ha definita lo storico Agostino Giovagnoli, dove si misurarono la tattica politica e la gestione mediatica di un evento che tenne un Paese col fiato sospeso per quasi due mesi. Oltre, naturalmente, il disperato desiderio di un uomo di salvare la propria vita e ritrovare la libertà.
Si farebbe però un torto, e forse lo si è fatto per troppo tempo, se la figura di Aldo Moro si riducesse solo alla vicenda del sequestro. Perché non si può dimenticare l’altra sua grande dimensione, quella del politico, dell’intellettuale e del fine giurista. E allora è il caso di rileggere le sue riflessioni e i documenti inediti nel bel volume di Pietro Panzarino, L’eredità politica di Aldo Moro. Pensiero e azione di un uomo libero (1976-78), (Marsilio, pp. 164, € 16). Un libro che ci restituisce l’immagine di un uomo capace come pochi di leggere i cambiamenti della società italiana e di interpretarli alla luce delle dinamiche politiche nazionali ma sempre all’interno del contesto internazionale, quello difficile della guerra fredda. Paziente e ragionatore, con quelle riflessioni articolate e multiformi che la nostra scena pubblica, oggi ridotta a marketing e spot, disdegna ma di cui, forse, avremmo bisogno in un momento in cui occorre restituire alla politica il coraggio di ragionare in maniera complessa. Come fece Moro per tutta la sua vita, dalle aule della Costituente sino all’angusta prigione in cui era stato imprigionato dalle BR.

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