Scuola: ci vuole più sapere ad ogni livello

14 Maggio 2011
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Sofia Toselli - Presidente nazionale CIDI

Pubblichiamo la seconda parte della riflessione della Presidente nazionale del CIDI sulla scuola.

E’ necessario sapere di più ad ogni livello
Per ritornare più volte a scuola nel corso della propria esistenza, per acquisire le competenze richieste dalla celerità del progresso scientifico e tecnologico è necessario aver acquisito maggiori conoscenze e abilità nella prima fase di scolarizzazione. Diceva Luciano Gallino in un convegno del Cidi di alcuni anni fa (La scuola nella società della conoscenza) che i lavoratori con qualifiche medio basse entrano in azienda in età più giovane ma chi di loro perde il lavoro a causa della conclusione di un ciclo tecnologico, anche se ancora lontano dai 40 anni, ha una probabilità minima di trovare un nuovo lavoro. La speranza di occupabilità, senza maggiori e solide competenze di base, è uguale allo zero. Sarebbe necessario allora un obbligo di istruzione – svolto nella scuola - almeno fino a 16 anni. Motivando i ragazzi attivamente attraverso un insegnamento e una didattica laboratoriale e operativa, attraverso l’uso dei laboratori, attraverso stage in contesti operativi e applicativi capaci di suscitare una reale curiosità e attenzione. Rinnovando quindi il modo di insegnare degli insegnanti e investendo su ambienti di apprendimento capaci di dare senso e significato al lavoro che si fa a scuola.
E’ necessario ripensare profondamente al sapere che serve
Sicuramente serve più cultura scientifica e tecnologica in ogni indirizzo, anche nei Licei: oggi si pone infatti il problema delle forme e dei modi del controllo sociale sul processo scientifico e tecnologico. Si pone il problema del controllo di uno sviluppo sostenibile dell’ambiente. C’è allora da chiedersi quale sia il sapere che serve. Quali discipline siano irrinunciabili. In quale rapporto i saperi essenziali stiano tra loro. Quale rapporto debba esserci tra area comune e di indirizzo.
E’necessario costruire un sistema efficace di educazione per adulti
mentre molti dei dispositivi voluti dal governo e previsti dal regolamento per l’educazione degli adulti appaiono davvero inadeguati.
Dunque sarebbe stato necessario rafforzare scuole, università, i luoghi della formazione e della ricerca, mentre l’attuale maggioranza ha votato una legge per far assolvere l’obbligo di istruzione anche nell’apprendistato, in un percorso cioè di addestramento al lavoro povero di sapere e conoscenza che sottrae a tanti ragazzi il diritto ad una istruzione di qualità.
Un articolo di Irene Tinagli, intitolato Il made in Italy ora vince con la laurea, pubblicato tempo fa sulla Stampa, ragionava proprio di questo tema. L’economista spiegava come la fortuna nel mercato internazionale di attività artigiane divenute imprese quotate in borsa sia legata alle competenze e al titolo di studio delle persone che ci sono dietro. Così, mentre in Italia si continua a rincorrere l’idea dell’attività artigiana vecchio stile, quella che “non si impara a scuola ma solo sul mestiere”, i casi riportati dalla Tinagli dimostrano come il made in Italy si affermi solo se costruito su conoscenze generali solide e su competenze economiche, finanziarie e di marketing di altissimo livello acquisite in prestigiose università. Che non è proprio la stessa cosa delle competenze acquisite nella formazione professionale o nell’apprendistato. Scriveva ancora la Tinagli: “da noi si continua a vivere nel mito dell’artigiano solitario chiuso nella bottega con i suoi apprendisti, come se tutto il mondo intorno non cambiasse mai. Peggio ancora, cerchiamo a tutti i costi di adattare i nostri giovani a questo mondo antico, incitandoli all’umiltà e alla riscoperta del mondo che fu, abbassando l’obbligo scolastico per metterli il prima possibile dietro a un tornio o a un bancone”.
Eppure dati su cui riflettere, che avrebbero dovuto portare a soluzioni diverse, ce ne sono a iosa. Varie indagini ci dicono che nel nostro Paese sono aumentate le disuguaglianze e la povertà, specie fra i giovani (ISTAT); che il nostro è un paese “bloccato” perché la famiglia di origine è determinante nell’accesso alle opportunità di studio e di lavoro: la posizione sociale di un individuo dipende dal titolo di studio, ma l’origine sociale influisce direttamente sul titolo di studio o sui livelli di scolarità (CENSIS); che l’investimento sulla scuola da parte di famiglie e Stato è conveniente: è più redditizio di Bot e Azioni (Bankitalia); che l’aumento di un solo anno dell’obbligo di istruzione si traduce in un aumento del tasso di crescita della popolazione scolastica del 5% a breve termine e di un altro 2,5% a lungo termine, con una ricaduta positiva sull’occupazione, sulla salute, sull’inclusione sociale e la cittadinanza (Rapporto europeo di medio termine). Che una scuola selettiva con un ridotto percorso dell’obbligo di istruzione non aiuta neppure a salvaguardare le élite, non diventa cioè una buona scuola neanche per le future classi dirigenti (Indagine IEA di Torstèn Husén).
Certo, rafforzare scuole e università, i luoghi della formazione e della ricerca presume cospicui investimenti e in un momento di recessione economica bisogna proprio crederci nella scuola e nella sua funzione! Si tratta però di ragionare su quali debbano essere le priorità per il Paese, su quale risorsa per l’economia e la democrazia siano uomini e donne capaci di scegliere e di progettare avendo gli strumenti culturali per capire e interpretare. Invece è come se si fosse rinunciato a capire la realtà. È come se la si volesse rimuovere dando risposte semplificate a problemi che sono invece complessi. C’è allora in questa difficoltà della politica a investire sul futuro, sulla scuola, sulla ricerca e sull’innovazione il nodo vero del nostro Paese.
C’è come una sottaciuta convinzione che la scuola non sia poi così importante, come se non si credesse più che la scuola sia uno strumento potente di mobilità sociale, che riesca a recuperare i ritardi cognitivi degli allievi in difficoltà, che sia luogo di compensazione culturale e sociale.
È come se i dati delle indagini internazionali avessero convinto il Paese (non solo la destra di questo Paese) che la scuola non riesce a portare tutti i ragazzi ad una istruzione più alta e qualificata. E se non ci riesce, tanto vale tagliarle le risorse.
Certo, se la scuola non è messa nelle condizioni di dispiegare tutta la sua efficacia e le sue potenzialità, non ce la farà ad assolvere alla sua funzione, non ce la fa a funzionare al meglio. Per quanto generosi gli sforzi e l’impegno degli insegnanti la scuola da sola non ce la può fare.
I dati relativi ai livelli di apprendimento dei nostri quindicenni, i tassi di dispersione specie al Sud, la percentuale di analfabeti adulti avrebbero dovuto muovere risorse, spostare soldi verso i luoghi della formazione, investire nella ricerca pedagogica per recuperare quel ritardo italiano di elaborazione sui fattori che influenzano il processo di insegnamento/apprendimento (modelli culturali e sociali, compresi), per capire le ragioni del successo e dell’insuccesso scolastico.
Per ricercare nuovi modelli di analisi e di interpretazione sui “fattori” dell’educazione perché sia possibile realizzare riforme capaci di far fronte ai mutamenti sociali e culturali, per contrastarne, secondo un’idea della politica che non si limiti a inseguire ma governi i cambiamenti, le spinte disgreganti e regressive, rispondendo alle sfide che la modernità ci impone.
E per trovare le strade per rendere più equo il nostro sistema dell’istruzione. L’ultimo rapporto Ocse e il rapporto della Fondazione Agnelli ci dimostrano infatti che le scuole ottengono risultati molto disomogenei tra loro. Ci dicono che la scuola non solo non è uno strumento di mobilità sociale, ma in alcuni casi amplifica le disuguaglianze di partenza. Ci dicono che la nostra è una scuola di classe, perché la distribuzione nei vari percorsi di istruzione avviene ancora in base al censo.
Emerge allora un forte contrasto fra i dati delle indagini e le soluzioni che il governo ha approntato.
Ogni riforma, ogni provvedimento, ogni atto nei confronti della scuola doveva essere rivolto a correggere e rimuovere gli errori di funzionamento del nostro sistema scolastico (e l’Invalsi a questo scopo dovrebbe servire, non certo a fare graduatorie tra scuole buone e cattive!). Invece sono stati amplificati, rafforzati tutti i dispositivi utili a selezionare, escludere, canalizzare.
Laddove la stessa Europa ci indica soluzioni diverse. Se un Paese “razionalizza” la spesa dell’istruzione, l’Europa invita a reinvestire i risparmi in qualità, a dirottarli in quelle zone dove si registrano i risultati più disastrosi. In Italia dove sta la possibilità di reinvestire i risparmi in politiche volte a migliorare i risultati di apprendimento, specie in alcune regioni del Sud?
La prossima Finanziaria prevede fino al 2040 la graduale diminuzione della spesa per l’istruzione (già di molto inferiore alla media europea!): dal 4,5% al 3,2%. In totale 13,5 miliardi di euro. Secondo il ministro Gelmini i pesanti tagli sono necessari per liberare risorse dalla spesa corrente (in gran parte stipendi!) agli investimenti per la qualità. Ma in Finanziaria non è previsto nessun reinvestimento per migliorare la qualità, per rendere - per esempio - più equo ed efficace il nostro sistema di istruzione, per ridurre dispersione, per migliorare l’edilizia, gli spazi, ecc.
I risparmi ottenuti servono solo a far cassa.
Oggi i tagli dell’attuale governo stanno trasformando il profilo istituzionale del nostro sistema scolastico, stanno inceppando il suo funzionamento, ne stanno cambiando le finalità.
Certo oggi non è facile ragionare di finalità della scuola come fu nel secolo scorso, quando fatta l’Italia occorreva fare gli italiani. Il mandato allora era chiaro: formare i cittadini del nascente Stato italiano attraverso l’unificazione della lingua, l’alfabetizzazione di base (leggere, scrivere, far di conto), le norme fondamentali dell’igiene e i principi della civile convivenza.
Quest’anno in Italia si stanno celebrando i 150 anni di Unità. Andrebbe allora ricordata l’importanza del ruolo svolto dalla scuola pubblica nel processo unitario, nello sviluppo e nel progresso del Paese. Di questo secolo e mezzo traiamo certamente un bilancio positivo, tanto più se si tiene conto delle condizioni di generale grave arretratezza culturale e sociale in cui versava la popolazione. Il 78% degli italiani era analfabeta, con punte di oltre il 90% al Sud. Nel processo di unità e di comune identità linguistica e culturale la scuola ha dunque avuto una funzione decisiva, garantendo progressivamente agli italiani le competenze alfabetiche necessarie per vivere, lavorare, continuare a studiare. L’istruzione di massa è stato il principale veicolo di integrazione e di emancipazione per milioni di persone e ciò è stato possibile grazie al lavoro tenace di migliaia di maestre e maestri che hanno saputo trovare, tra mille difficoltà, negli ideali risorgimentali e nel bisogno di riscatto sociale per la popolazione, le motivazioni e il senso del proprio impegno educativo. E per decenni, l’istruzione e la cultura sono state percepite come i mezzi più efficaci di crescita e di progresso personale e collettivo. Grazie alla scuola è stata garantita una nuova cittadinanza. La scuola corrispondeva ad una esigenza vitale della società.
Oggi, dopo qualche decennio in cui l’istruzione e la cultura, nella società dei media e del mercato, non sono più garanzia di successo e di affermazione, diventa difficile tracciare nuove finalità per la scuola. Ma io credo che oggi vada crescendo un rinnovato bisogno di cittadinanza e di democrazia e, più in generale, di una rinnovata idea di progresso ed equità. C’è di nuovo il bisogno di “rifare gli italiani”. E se la spinta espansiva dell’istruzione si è arrestata mentre crescono povertà, ignoranza e corruzione, è proprio dalla scuola che occorre ripartire. E’ sulla scuola che è necessario investire. Per far crescere l’intelligenza, il senso critico, la cultura di tutti.
Dicevo all’inizio che le strade che abbiamo di fronte sono due: prendere atto della situazione per come essa è, rassegnandosi alle politiche in atto, oppure opporsi con ragionate e circostanziate argomentazioni (che devono essere dette e ridette in ogni luogo, in ogni scuola, da ciascuno di noi) cercando di contrastare la deriva che è in corso. Nel frattempo dobbiamo ragionare, elaborare, pensare a soluzioni che ridiano slancio a tutto il sistema di istruzione, che lo rimettano in condizione di funzionare. Abbiamo davanti a noi anni lunghi e difficili, è necessario perciò discutere, riavviare il dibattito sui nodi di fondo del sistema scolastico per portare all’attenzione generale delle famiglie, degli studenti, delle forze politiche, degli amministratori locali l’emergenza educativa in questo paese.
L’ultimo rapporto del Censis afferma che la vitalità innovativa di una società dipende dai suoi sogni e dalla fiducia nel futuro. In Italia, secondo il rapporto, emerge invece il profilo di una società paralizzata dall’assenza di speranza e dall’impossibilità di trovare vie di uscita alla caduta culturale ed etica in cui si trova: una società senza regole e desideri, e senza fiducia nella classe politica. “…tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita…”, scrive nel suo duro commento De Rita.
Sappiamo però che la fiducia nel futuro e i sogni e i desideri delle persone sono la conseguenza dei modelli sociali dominanti, modelli che, a loro volta, sono l’effetto dei valori che la politica comunica e delle scelte che compie.
E dunque in Italia ci sarebbe bisogno di cambiare rapidamente il ruolo della politica e di ridare nuove priorità alle agende governative per riprendere un percorso virtuoso di equità e progresso. La via di uscita è guardare oltre la crisi e ricominciare dalla scuola, investendo in idee, progetto e risorse, per finalità di lungo respiro. La scuola va considerata come leva di ricostruzione sociale, motore di sviluppo e di progresso.
Per tornare ad avere fiducia nel futuro, per ridare ai nostri figli sogni, desideri e speranza perduti. Per restituire i diritti che questa destra – molto conservatrice e un po’ fascisteggiante - con arroganza e prepotenza ha loro sottratto.

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