Stati Uniti stanchi di guerra?

6 Maggio 2011
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Immanuel Wallerstein


Proseguiamo la riflessione su l’affaire Bin Laden e la “guerra al terrorismo” con un commento di un intellettuale democratico globale, Immanuel Wallerstein, che esprime l’opinione di larghi strati dell’intellighenzia progressista americana e non solo. Dice basta la sinistra obamiana, e sul ritiro perfino i Tea Party sono divisi. Anche in Italia sono contro l’intervento in Libia non solo vasti strati della sinistra, ma anche Lega e molti settori del centrodestra.

Gli Usa sono attualmente impegnati in tre guerre nel Medio Oriente - in Afghanistan, in Iraq e ora anche in Libia. Gli Stati Uniti hanno basi militari in tutto il mondo, in più di 150 paesi. Al momento i rapporti sono tesi con la Corea del Nord e l’Iran, e gli Usa non hanno mai escluso l’azione militare. La guerra in Afghanistan, all’inizio, nel 2002, ebbe un notevole appoggio dall’opinione pubblica statunitense, e in verità anche da gran parte degli altri paesi. La guerra in Iraq ebbe all’incirca lo stesso appoggio da parte dell’opinione pubblica americana al principio, nel 2003, ma fu molto meno sostenuta dagli altri paesi. Ora gli Stati Uniti sono parzialmente impegnati in Libia. Meno della metà dell’opinione pubblica americana appoggia questa guerra che in gran parte del resto del mondo è fortemente osteggiata.
I più recenti sondaggi condotti negli Usa mostrano come l’opinione pubblica sia ormai contraria non solo all’operazione militare in Libia ma anche alla permanenza delle truppe in Afghanistan. Gli analisti parlano di una «stanchezza di guerra» diffusa tra gli americani, cosa assai probabile visto che sarebbe difficile sostenere che gli Usa siano usciti vittoriosi da uno qualunque di quei conflitti. Il conflitto libico sta andando verso una lunga palude. In Afghanistan, tutti cercano di immaginare una soluzione politica che dovrebbe prevedere un coinvolgimento dei talebani nel governo e forse anche una loro andata al potere in tempi brevi. Inoltre gli Usa dovrebbero ritirare le truppe dall’Iraq il 31 dicembre. Hanno offerto di lasciarvi di stanza 20.000 uomini, sempre che il governo iracheno lo richieda e che lo richieda presto. Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, potrebbe anche essere tentato di farlo ma i sadristi hanno annunciato che in quel caso gli toglierebbero il sostegno, facendo cadere il governo.
La cosa più interessante comunque è capire cosa succederà nella politica interna americana ora che si avvicinano le elezioni presidenziali. Dal 1945, il Partito repubblicano si è sempre schierato a favore delle forze armate, accusando il Partito democratico di essere troppo tenero. I democratici hanno reagito cercando di dimostrare che non erano poi così teneri e di fatto non c’è stata una gran differenza tra la politica degli uni e quella degli altri, indipendentemente dal partito del presidente in carica. Anzi le guerre più grosse - Corea e Vietnam - sono state dichiarate durante presidenze democratiche. All’interno del Partito democratico poi è sempre esistito un gruppo di sinistra critico nei confronti di quelle guerre e quel gruppo continua ad esistere e a protestare. Tra i politici eletti però quelle posizioni sono sempre state di minoranza e sono ampiamente ignorate.
Il Partito repubblicano invece è sempre stato più coerentemente compatto nell’appoggiare le forze armate e la guerra. Sono stati pochissimi i repubblicani con un’altra visione della cosa. In particolare i membri dell’ala libertaria del partito, tra i quali il più rappresentativo è stato il deputato texano Ron Paul che, tra l’altro è stato anche uno dei pochi politici convinti che il sostegno indiscriminato degli Usa a Israele non fosse una buona idea.
Così stanno le cose al momento nella corsa alla presidenza. Barack Obama sarà il candidato democratico. All’interno del suo partito non ha concorrenza. Al contrario nel Partito repubblicano ci sono dieci o dodici candidati alla nomina, nessuno dei quali appare particolarmente più forte. Dunque la gara è aperta.
Che significa questo per la politica estera? Ron Paul vuole scendere in campo. Nel 2008, non aveva sostenitori, adesso la sua campagna riscuote notevole successo e questo in parte è dovuto alle sue posizioni decise in merito alla politica fiscale, ma anche la sua posizione sulla guerra riscuote forte interesse. Inoltre c’è un candidato nuovo alla ribalta: Gary Johnson, già governatore repubblicano del New Mexico. Anche lui libertario, Johnson è ancora più schierato contro la guerra di Paul e reclama il ritiro totale e immediato da Afghanistan, Iraq, e Libia.
Dato il sostegno ad ampio raggio dei diversi candidati, ci saranno certamente trasmissioni televisive durante le quali avranno modo di presentarsi tutti i candidati repubblicani. Se Johnson farà della sua posizione contro la guerra il suo cavallo di battaglia tutti i candidati repubblicani dovranno affrontare la questione.
Se questo dovesse succedere scopriremo che i repubblicani Tea Party sono profondamente divisi sul tema della guerra. E all’improvviso tutti gli Usa si troveranno a discuterne. Barack Obama scoprirà che la posizione centrista che ha cercato di conservare si è improvvisamente spostata a sinistra. E che per rimanere al centro bisogna spostarsi a sinistra.
Quella sarà una svolta importante per la politica Usa. L’idea che le truppe debbano tornare a casa diventerà una possibilità seria e qualcuno fumerà di rabbia perché in tal modo gli Stati Uniti faranno mostra di debolezza. Cosa che a suo modo è vera: fa parte del declino degli Usa. Ma di certo ricorderà ai politici americani che per fare le guerre bisogna avere il supporto popolare e che, con questa combinazione di pressioni geopolitiche ed economiche che oggi tutti avvertono, d’ora in poi la stanchezza di guerra andrà presa seriamente in considerazione.
(Traduzione di Maria Baiocchi)
Distribuito da Agence Global

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