Affaire Bin Laden. Dove va Obama?

5 Maggio 2011
2 Commenti


Andrea Pubusa

C’è una corrente democratica americana che interpreta l’uccisione di Osama da parte di Obama come l’eliminazione della figura simbolica del nemico, che nell’immaginario americano spinge alla guerra e la giustifica. Insomma, l’uccisione di Bin Laden come passaggio preliminare e necessario per decretare la fine dellla “guerra” al terrorismo. Si veda in questo senso l’articolo della direttrice di The Nation pubblicato sotto e, domani quello di Immanuel Wallerstein. Ma l’opinione è diffusa anche da noi in ambiente progressista.
E’ una visione ottimistica degli avvenimenti, che evoca l’antico adagio machiavellico del fine (buono) che giustifiica i mezzi (atroci). Ma è proprio così? Intanto, contro la vulgata, già il segretario fiorentino riteneva giustificata l’applicazione di quella formula solo in assenza di istituzioni che potessero consentire il ricorso ad altri mezzi, primo fra tutti il giudice. I mezzi spicci, insomma, sono giustificati solo quando lo scontro non consente di utilizzarne altri. Ma gli States potevano ben catturare Osama e consegnarlo ad una Corte internazionale. In secondo luogo, è contraddittorio e velleitario pensare l’uscita dal bushismo e dalla “guerrra infinita” non con un atto di chiara marca democratica, ma con un fatto oscuro, che già nella versione ufficiale si configura come un gestso gangsteristico, una esecuzione in piena regola, per di più violando la sovranità di un altro Stato. E poi la democrazia è trasparenza. Questa vicenda, all’opposto, è così oscura che si presta ad ogni congettura, perfino all’ipotesi che Osama sia morto anni fa in Afghanistan oppure all’affermazione ch’egli sia ancora vivo.
Insomma, comunque la si voglia girare, la vicenda contrasta con un principio fondamentale del pensiero democraticico, e cioè che la democrazia si persegue e s’invera con la pratica democratica. Inoltre questa oscura faccenda contraddice l’immagine di riferimento democratico con cui Obama si è presentato al mondo e che ha indotto a conferirgli il premio Nobel ex ante, sulla base delle intenzioni più che dei fatti.
L’eliminazione di Osama, dunque, a primo acchito si presta più ad un’interpretazione pessimistica che ad una ottimistica: più che di una fuoriuscita dal bushismo, sembra un risucchio di Obama in esso, nei suoi metodi spicci da Far West, lontanissimi da quelli più miti dello Stato di diritto. Ma, al di là delle interpretazioni, al momento, tutte legittime, Obama ha un solo modo per convincerci delle sue buone intenzioni, e cioè dichiarare la fine della “guerra” al terrorismo e il ritorno alla normalità internazionale. In conseguenza, deve ritirare le truppe dall’Afghanistan e dall’Irak, desistere dal proposito di fare con Gheddafi ciò che ha fatto con Osama, chiudere Guantanamo, essere per il mondo riferimento democratico non militare. Per battere gli integralismi altrui, bisogna sforzarsi di non esserlo noi stessi. Staremo a vedere, ma non passivamente, battendoci per la prima soluzione.

2 commenti

  • 1 Francesco Cocco
    5 Maggio 2011 - 08:21

    Non so se Obama sia o meno sedotto dal fascino del bushismo. Ad una prima e sommaria impressione (ma non ho strumenti per esprimerne un’ altra) mi pare che la via seguita dall’attuale presidente USA fosse quella da imboccare dopo l’ 11 settembre anziché spingersi sulla via della guerra guerreggiata. Una volta imboccata una scelta sciagurata, come fece l’ Amministrazione Bush, non è poi facile uscirne.
    Ciò di cui sono convinto è che i mali dell’Occidente non sono destinati a finire se non si porrà fine al sistema di privilegi in cui esso vive rispetto al terzo mondo. I leghisti ed i loro emuli di destra in Italia ed in Europa possono pensare che l’invasione cessi con il blocco armato alle frontiere. Occorre molto di più: la capacità dei popoli opulenti di rinunciare al privilegio. Perché questo accada devono essere innanzitutto i singoli ad avere una tale capacità di rinuncia………e francamente non la vedo molto diffusa, tutti intenti a difendere il proprio orticello.

  • 2 Mario Sciolla
    5 Maggio 2011 - 12:05

    I dubbi e dilemmi esposti nell’articolo sono condivisibili, direi, in toto. Ma aggiungo un’amara considerazione: sia in scenari grandi (potenze mondiali) che in quelli più modesti (come la nostra Italia), non si rintraccia – oggi – alcuna combinazione tra azione politica e processi storici.
    Gli USA e il mondo apprendono un evento – peraltro non pienamente accertabile, privo non solo di testimonianze cogenti, non solo di “habeas corpus”, ma persino di “habeas imaginem” – che viene ridotto dal presidente USA a puro strumento di campagna mediatica mirata alla rielezione.
    L’Italia dà luogo a un dibattito parlamentare “sulla crisi libica” con un gioco-confronto di mozioni tutte tese, di fatto, esclusivamente al piccolo cabotaggio della politica interna (a meno che qualcuno non pensi davvero che il nostro dibattito parlamentare possa avere ripercussioni nella situazione libica).
    Intanto i problemi epocali, di difficile interpretazione e soluzione, proseguono in percorsi di ben altro impegno. Ma l’azione politica pare troppo ancorata alle scadenze di breve periodo.

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