Katrina vanden Heuvel - direttrice The Nation
Su Il manifesto di Martedì 3 Maggio è stato pubblicato questo articolo che riflette il punto di vista di un’area democratica americana, cui The Nation - com’è noto - dà tradizionalmente voce.
Con un discorso drammatico, ma al tempo stesso sobrio, rivolto agli americani, domenica notte il presidente Obama ha annunciatola cattura e l’uccisione di Osama bin Laden.
Ci ha ricordato l’orrore, il dolore, la tragedia e l’assurdità del massacro dell’11 settembre del 2001. Ci ha ricordato come, in quei lugubri giorni, «abbiamo riaffermato la nostra unità, come una sola famiglia americana… e la nostra eterminazione a portare di fronte alla giustizia i colpevoli di quell’attacco crudele». Il presidente ha spiegato come la cattura e uccisione di bin Laden sia stato «lo sforzo più significativo finora nella nostra battaglia per sconfiggere Al Qaeda». E ha rieffermato che questo paese non farà mai la guerra all’islam. Per questa ragione, ha detto Obama, la «morte di bin Laden è una buona notizia per tutti coloro che vogliono la pace e la riaffermazione della dignità umana». Il suo appello rivolto agli americani perché ricordino ciò che ci unisce, che «giustizia è stata fatta », è un’importante apertura che va presa al volo. È ora di mettere fine alla «guerra globale contro il terrorismo» con cui abbiamo vissuto nell’ultimo decennio. E’ ora di smettere di definire la lotta del dopo 11 settembre contro dei terroristi senza stato come una «guerra». Ed è ora ache di mettere fine all’assurda guerra in Afghanistan che è già costata al paese cosi’ tante vite e denaro. Definire la lotta contro il terrorismo una guerra è stata una consapevole decisione di Bush, di Karl Rove e di altri nei primi giorni dopo l’11 settembre – una decisione che distrusse l’unità di cui ha parlato il presidente Obama domenica notte. Rove aveva capito che se la lotta senza fine contro il terrorismo fosse stata definita una «guerra», sarebbe diventata la grande narrazione della politica americana.
Che avrebbe portato con sé i danni collaterali di cui siamo stati testimoni negli ultimi dieci anni. La metafora della «guerra» - come ha scritto l’ex ambasciatore americano Ronald Spiers in un articolo provocatorio pubblicato nel marzo 2004 sul Rutland Herald , «non è né precisa né innocua, poiché implica che c’è un punto finale, che sarà o una vttoria o una sconfitta… Una “guerra al terrorismo” è una guerra senza una fine in vista, senza una exit strategy, con dei nemici indentificati non a causa dei loro obiettivi ma per la loro tattica… Il presidente aveva trovato questa “guerra utile”, come una giustitifazione complessiva per quasi tutto quello che voleva – o non voleva – fare; la confusione serviva politicamente l’amministrazione. Ricorda la guerra ambigua e senza fine di Big Brother nel libro 1984 di Orwell. Una guerra contro il terrorismo è un impegno permanente contro uno strumento sempre a portata di mano».
L’amministrazione Bush e, purtroppo, troppo spesso anche quella di Obama, ha usato la «guerra» come giustificazione per minare i migliori principi americani. Siamo stati testimoni dell’abuso del ricorso alle norme internazionali sui diritti dell’uomo, dell’imprigionamento illegale dimigliaia di donne e uomini e dell’accettazione della tortura. Mi ricordo di aver guardato due anni dopo l’11 settembre la cermonia al memoriale di Washington dedicato alla Seconda guerra mondiale, e di essere stata spinta a riflettere a come, durante la tragedia di quella guerra, che fu una ben maggiore sfida all’esistenza del nostro paese rispetto alla situazione attuale, il presidente Roosevelt avesse dato all’America una visione di speranza e non di paura. Un decennio prima, durante la Grande Depressione, un’altra importante sfida allo spirito e all’unità del paese, Roosevelt aveva detto alla nazione che non c’è nulla di cui aver paura, a parte la paura stessa. Con il presidente Bush e il suo gruppo, abbiamo visto gente impegnarsi a fondo per convincere gli americani – attraverso una serie di imprecise analogie storiche – che non c’era nulla di cui aver paura, a parte la fine della paura stessa. Oggi, il presidente Obama e il suo gruppo hanno la possibilità di ridefinire la lotta al terrorismo. Certo, viviamo all’ombra dell’11 settembre – un crimine enorme.Ma il terrorismo non è un nemico che sfida l’esistenza della nostra nazione; la nostra risposta non deve distruggere i veri valori che definiscono l’America ai nostri occhi e a quelli del mondo. L’amministrazione Bush ha sfruttato senza vergogna, per scopi politici, la paura del terrorismo negli Usa. Ma, come abbiamo imparato, una guerra senza fine iper-militarizzata può indebolire maggiormente la nostra democrazia e incoraggiare un nuovo stato basato sulla sicurezza, che sormontare seriamente la sfida. Dopo tutto, non siamo impegnati in primo luogo in un’operazione militare. Ma si tratta piuttosto di un’operazione di intelligence, di rafforzamento delle leggi, di uno sforzo diplomatico. Il presidente Obama lunedì sera ha usato termini umani e sobri. È stato un sollievo ritrovare nelle sue parole il riferimento a quei (tropo brevi) giorni dopo l’11 settembre, quando l’idea di un sacrificio condiviso, del rispetto del lavoro degli impiegati pubblici, dei pompieri, di coloro che per primi avevano reagito, di un ampio senso del bene comune avevano pervaso la nostra società e la politica. E dopo la cattura e l‘uccisione di bin Laden, i leader politici avranno il coraggio di dire che quello a cui siamo confrontati non è una «guerra» al terrorismo? Purtroppo, il presidente Obama ha proseguito troppe politiche di sicurezza dell’era Bush. Ma è al tempo stesso un presidente che capisce come le guerre siano una sfida per bloccare delle presidenze riformatrici e come minino alla base i migliori valori di questo paese. Se noi cittadini sfidiamo la definizione di «guerra», se rifiutano, dieci anni dopo il feroce attacco dell’11 settembre, di lasciare che la «guerra» definisca la psiche nazionale e la sua politica, se chiediamo ai nostri rappresentanti di smettere di piegare oggi virtualmente ogni discussione di politica estera in termini di terrorismo, abbiamo la speranza di costruire uno schema per la sicurezza nuovo emaggiormente efficace. Shirin Ebadi, grande personalità nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini, la prima donna musulmana ad aver ricevuto il Premio Nobel, una persona che ha fronteggiato il fondamentalismo nella sua terra natale, l’Iran, ha detto quasi dieci anni fa: «I governi non reprimono la gente solo con false interpretazioni della religione; a volte lo fanno con discorsi ipocriti sulla sicurezza nazionale».
1 commento
1 Basta «guerra» al terrorismo | Politica Italiana
5 Maggio 2011 - 07:46
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