L’impoverimento del lavoro frena lo sviluppo

4 Maggio 2011
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Andrea Raggio

Nel recente saggio sulla povertà Marco Revelli documenta ampiamente l’impoverimento del lavoro negli anni recenti. Lo spostamento di ricchezza dal salario al profitto ha raggiunto nei principali paesi industriali dimensioni imponenti. In Italia ben 120 miliardi di euro. La gran parte dei nuovi profitti, però, non è andata a incrementare gli investimenti produttivi ma ad alimentare la speculazione finanziaria. Impoveriti sono non solo i lavoratori dipendenti ma anche quelli autonomi, il ceto medio nell’insieme. Per i cittadini – uomini e donne -disoccupati, precari, cassa integrati non solo d’impoverimento si stratta ma sempre più di vera e propria povertà, sia pure a diversi livelli. Per la prima volta nella storia dell’umanità una generazione rischia di vivere nell’insicurezza.
L’altro aspetto dell’impoverimento è costituito dalla progressiva erosione dei diritti dei lavoratori e del logoramento della dignità del lavoro. La deprivazione dei diritti ha alimentato lo scambio protezione clientelare – fedeltà politica, indebolendo la democrazia. Le conquiste del secolo scorso sono state in parte smantellate, il lavoro è sempre più ridotto a merce: si compra se costa poco e dove costa meno.
L’impoverimento del lavoro, però, non è servito a produrre nuovo sviluppo, lo ha invece frenato. La ripresa economica, infatti, è lenta e produce sempre meno occupazione. Qui sta la prova della crisi del vecchio tipo di sviluppo ma anche la sollecitazione a fare del lavoro la leva di uno sviluppo nuovo.
Occorre, nello stesso tempo, considerare che il lavoro sta contribuendo in notevole misura a cambiare il volto e ad accrescere il peso economico e politico di grandi aree, dall’Asia all’America meridionale, ed è uno dei fattori che alimentano il vento di libertà e democrazia che soffia in gran parte dei paesi arabi. Si può ben dire, in conclusione, che il lavoro, al pari della pace e dell’ambiente, è questione generale e globale, riguarda il futuro dell’umanità.
Ciononostante il lavoro non costituisce oggi il terreno principale dello scontro politico e della battaglia ideale. La missione stessa della sinistra, che sul lavoro ha storicamente fondato la sua ragione d’essere, è messa in discussione. Così pure l’essenza della strategia autonomista, imperniata sulla “rinascita economica e sociale” (articolo 13 dello Statuto) finalizzata alla “massima occupazione stabile”(articolo 2 della legge 588 del 1962). Su queste basi ha preso corpo e si è impetuosamente sviluppato negli anni ’60 e ’70 il grande movimento per la rinascita, animato dai sindacati, dai partiti e dall’intellettualità.
La questione lavoro oggi, invece, è di fatto lasciata ai soli sindacati e perciò rischia di esaurirsi nella difesa dell’esistente. Nei recenti documenti programmatici del PD nazionale il lavoro ha un posto centrale, ma l’incidenza di questa scelta sulla realtà è scarsa anche perché l’agenda politica è monopolizzata dagli interessi di Berlusconi e dalle sue giravolte. Si può parlare di centralità del lavoro senza liberare il campo dal cavaliere?
In un recente documento i gruppi consiliari del centrosinistra sardo manifestano pieno sostegno al sindacato. Un atto certamente importante, ma la solidarietà non basta a definire una strategia. I sindacati hanno accennato a un nuovo piano di rinascita. Capisco il senso della proposta: mettere in campo un’idea di sviluppo nuovo che impegni non solo i sindacati. Così come nel 1950, col Congresso del popolo sardo. Ma allora l’idea del piano, sancita nello Statuto, prendeva corpo sull’onda di un grande movimento per il lavoro che saldava l’emergenza con la prospettiva, la lotta sociale con quella politica. E di questa saldatura che oggi abbiamo bisogno.

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