I° maggio: chi divide i lavoratori aiuta la destra

1 Maggio 2011
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Furio Colombo

Da “Il Fatto quotidiano” di oggi questo bel editoriale sulla Festa del Lavoro.

Oggi è il primo maggio, che dite, festeggiamo? Sarebbe la festa del lavoro, ricordo di un giorno in cui, in un tempo passato e tramontato, c’era chi si prestava a sparare sui lavoratori in sciopero. Tempi barbari e primordiali, quando aveva ragione solo il più potente e il più ricco. Ma poi sono venuti i sindacati, i diritti, le leggi, il rispetto, un senso di uguaglianza non economica ma giuridica e morale, che è l’altra faccia della democrazia.
Eppure c’e chi non ha mai lavorato però va in giro a dire: ma quale festa? Il lavoro si festeggia lavorando. Logico, no? Non secondo la Bibbia. In quel Libro (e, per quel che se ne sa, in ogni altro testo sacro del mondo) a un certo punto Dio, per celebrare il lavoro fatto, riposa. E non secondo la legge americana, ovvero legge e tradizione del Paese di riferimento del capitalismo nel mondo. In quel Paese è stabilito che il primo martedì di settembre si celebra il “Labor Day” ovvero “il giorno del Lavoro”. E quel giorno, nella cosmopolita città di New York, celebre per la sua fama di non chiudere mai, di non dormire mai, non vi aspettate di trovare un ristorantino crumiro (si diceva così un tempo di chi rifiutava di partecipare a uno sciopero) aperto e pronto a servirvi.
Allora che senso ha, in un Paese molto meno capitalistico degli Usa e fondato quasi solo sul controllo monopolistico e familiare della ricchezza, con pochi lavoratori relativamente al sicuro, e tutti gli altri allo sbando, levare la voce con la fierezza degli infaticabili e dire che solo lavorando si celebra il lavoro, e che la festa (persino se cade di domenica) è una contraddizione, e anzi un pretesto per ridurre la produzione di ricchezza nazionale?
Una ragione c’è, ed è molto importante. Se si resta, almeno in apparenza, all’interno del sistema democratico, occorrono espedienti intelligenti, e complici culturali, per compiere la missione di togliere di mezzo il lavoro ovvero i sindacati, ovvero per cambiarne la natura. Entra in campo, molto prima che la realtà sveli il vero volto di una situazione, che si chiamerà “precariato”, l’ambigua parola “flessibilità”.
È toccato al giornalista giapponese Hiroko Tabuki raccontarci, dal Giappone, la parabola del lavoratore precario, nei giorni di Fukushima: “La terra tremava, le ciminiere sembravano fili d’erba scossi dal vento, Masayuki Ishizawa stentava a restare in piedi sul terreno oscillante mentre cercava di allontanarsi dal reattore n. 3. Ma al cancello principale il personale di guardia lo ha fermato, ha chiesto i documenti, ha rifiutato di farlo uscire. ‘Ma lo Tsunami? Non vedete che arriva lo Tsunami?’. Il fatto è che Masayuki Ishizawa è solo uno delle migliaia di lavoratori precari che non dipendono dalla Tokyo Electric Power, l’impresa che gestisce il reattore, ma da gruppi che hanno vinto appalti. Sono tutti lavoratori che, in situazioni normali e senza emergenza, sono esposti a radiazioni sedici volte più alte dei lavoratori regolari della Tokyo Electric Power”. Tutto il resto è l’immensa disgrazia che segue. Ma un principio è stabilito. Nasce un ordine di prestatori d’opera inferiore, che riproduce il sistema delle caste indiane.
Ora la seconda mossa. Bisogna persuadere i nuovi “intoccabili” che la loro controparte non è l’astuta organizzazione padronale, non sono i politici di sostegno a quella intelligente strategia del risparmio sui costi del lavoro. No, il vero nemico è l’altro lavoratore, quello che viene prima (ovvero da un’altra epoca) e ha un contratto stabile e normale.
Sentite Mario Deaglio, economista e docente: “I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello della Alitalia, quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, dunque privilegiata cassa integrazione, mentre i precari rimasero a bocca asciutta”. (La Stampa, 16 aprile). Dunque non è una trovata dei manager e dei nuovi investitori avere inventato la spaccatura fra un’azienda sicura (la “good company”) e una su cui scaricare tutti i debiti (la “bad company”). E non è l’inevitabile applicazione di un precedente contratto a imporre la cassa integrazione per i lavoratori assunti prima della invenzione del precariato.
Detto così, tutto è pronto per lo scontro generazionale, che prenderà il posto della lotta di classe, o almeno del confronto, che per natura non può essere facile, fra lavoro e proprietà. Adesso se la vedano i lavoratori. Infatti conclude Mario Deaglio nell’articolo citato: “Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese normale composto di persone sopra i quarant’anni e un Paese precario composto di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi”. Ecco dunque il nuovo tipo di scontro, che potrebbe avere tre effetti desiderabili per ogni conservatore che sia anche un buon giocatore: mette sotto accusa i sindacati, spacca ogni opposizione di sinistra (fra chi cede alla sirena del precariato come modernità e chi resta dalla parte del lavoro). E impegna i giovani a combattere gli anziani (che intanto li stanno mantenendo) sicuri che gli operai anziani, e non gli imprenditori, siano gli esosi e i conservatori di un passato ormai insopportabile.
Ecco dunque chiarito un piccolo mistero. Perché, in un Paese un po’ ipocrita e incline alla celebrazione di tutto, adesso si condanna la festa del lavoro? Ma perché se non togli il mito e il valore del lavoro resti legato a quella strana cosa chiamata “sinistra” in cui il lavoro era il fondamento di un legame fra tante persone non facilmente trasformabili in “audience”. Per governare nel modo nuovo di una destra senza scrupoli e senza pesi inutili bisogna liberarsi del lavoro. Qualcuno comincia con il Primo maggio. Qualcuno deve dire di no.

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