Francesco Cocco
Oggi ricorre il 150° dell’Unità d’Italia. Quale modo migliore di evocare il nostro Risorgimento se non richiamando la riflessione di uno dei pensatori più letti e tradotti del Novecento italiano, il fondatore del Partito comunista italiano Antonio Gramsci? E lo facciamo attraverso la penna acuta di Francesco Cocco, che all’opera del Grande Sardo ha dedicato molta parte della sua intensa attività di studioso e d’intellettuale militante.
Ho un netto ricordo del centenario dell’ Unità d’Italia festeggiato mezzo secolo fa. Vi furono iniziative degne di quel grande evento, ma certamente con meno sventolio di bandiere ed anche con minor retorica patriottarda. Ma subito mi scuso per questa brutta ed inesatta locuzione “retorica patriottarda”. In realtà ci troviamo in presenza di una reazione democratica che giustamente fa appello ai sentimenti di fronte al pericolo di una rottura della stessa Unità, che nel 1961 nessuno metteva in pericolo. Non c’era la Lega Padana a minacciarla, né sarebbe stato concepibile che rappresentanti di una siffatta forza politica potessero sedere sugli scranni del governo. Così nelle manifestazioni nasce un forte bisogno di riprendere in mano il tricolore e di cantare l’ inno di Mameli. Ed entrambi i simboli finiscono per acquistare una valenza politica che nessuna bandiera di partito o sindacale riesce più ad evocare.
Per evitare il pericolo di far prevalere esclusivamente gli aspetti sentimentali ho ritenuto utile una rivisitazione del pensiero gramsciano. Il grande pensatore sardo non mise in dubbio l’esigenza dell’unità nazionale ma ne evidenziò i limiti, attribuendo alle nuove forze sociali emerse con la rivoluzione industriale il compito di portare a compimento il processo risorgimentale. Per Gramsci la raggiunta Unità si concretizza “come ripresa di vita nazionale, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali……” In quanto tale essa si lega ai processi storici iniziati con la rivoluzione francese e finisce per dare prospettiva e concretezza all’azione dei gruppi in campo”.
La riflessione gramsciana si sofferma sull’ azione di questi gruppi. Siamo cioè in presenza del prevalere delle forze moderate su quelle democratiche. Di qui i caratteri emersi nel processo risorgimentale, propri della formazione della società italiana e dello stato
Leggendo le note di Gramsci sul Risorgimento appare chiaro lo scontro che sin dai primi decenni dell’Ottocento opponeva le forze conservatrici, contrarie all’unificazione del Paese, e le forze progressiste che, “scarsissime e poco coordinate”, lottavano per l’unificazione. Qui va individuata la soluzione moderata del processo risorgimentale e l’attrazione egemonica esercitata successivamente nell’affrontare i problemi di costruzione del nuovo stato. La spiegazione è nel fatto che “i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, mentre il cosiddetto partito d’azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica”. Per Gramsci quindi il Risorgimento fu un processo positivo che consentì di immettere l’Italia nel circuito europeo.
Ciò che egli critica è l’esito al quale approdò quel processo. Una delle cause della sconfitta dei democratici egli la vide nella loro incapacità di organizzare un grande movimento popolare di massa, con ciò condannandosi alla sconfitta o all’emarginazione nella lotta politica. Nelle condizioni della società italiana di allora, per realizzare un altro esito i democratici avrebbero dovuto organizzare i contadini nella lotta per la conquista della terra. Di qui il Risorgimento come “rivoluzione agraria mancata”
Questa analisi consente anche di capire il trasformismo che ha dominato lo scenario politico italiano sino all’instaurazione del regime fascista nei primi anni venti del Novecento. Il fenomeno non è spiegabile con semplici categorie morali ma con la più complessiva natura del Risorgimento e col conseguente ruolo egemonico esercitato dalle forze moderate. A tal proposito Gramsci individua un trasformismo “molecolare” sino alla fine dell’Ottocento ( attrazione di singoli esponenti), dal “ trasformismo di interi gruppi che passano al campo moderato” con la conseguente decapitazione dei gruppi progressisti.
Credo che non potremmo capire il pensiero gramsciano sul Risorgimento se non teniamo presenti tematiche centrali come quelle sul Meridione, sul giacobinismo, sul dominio, sulla egemonia.
Siamo in presenza di una riflessione che ci aiuta ad analizzare il presente. Così come durante il Risorgimento, anche oggi il tema dell’unità d’Italia ruota ancora sullo scontro tra forze reazionarie (leghismo) e forze democratiche, incapaci anche oggi di un’ incisiva azione unitaria. E’ il risultato della perdita di quella egemonia che la sinistra è riuscita ad esercitare per lunghi periodi a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Il pensiero gramsciano è per altro verso di grande aiuto per capire un tema come quello del federalismo. Gramsci seppe andare oltre il feticismo di un’unità statuale meramente formale, per ricercare i filoni più profondi dei processi di aggregazione sociale e quindi istituzionale. Egli guardò con favore al federalismo e nelle tesi dei congressi del PCd’I di Lione e di Colonia emerge chiaramente questo atteggiamento favorevole .
Su tale posizione certamente agiva il fascino, ancora intatto, della Rivoluzione d’Ottobre, (l’URSS come grande repubblica federale di nazionalità). Ma soprattutto vi era la consapevolezza che occorreva andare oltre l’intelaiatura sabauda data agli stati preunitari nel processo di unificazione risorgimentale.
La ricerca di Gramsci, che egli portò avanti per un decennio in carcere, è finalizzata ad analizzare la società italiana in tutte le sue varie componenti per riaggregarla su più solide basi.
In questo è la profonda differenza tra il federalismo gramsciano e certe problematiche federaliste che vengono agitate in Italia da circa un ventennio. Al grande disegno federalista gramsciano, che poi si riallaccia al progetto federalista risorgimentale e post-risorgimentale, vi è oggi il contrapporsi del disegno del leghismo, nominalmente federalista in realtà scissionista. Il primo (Gramsci) mirava a federare su più solide basi unitarie, il secondo (leghismo) persegue sostanzialmente l’obiettivo della scissione del Nord, anche se oggi attenuato dalla partecipazione al governo del Paese.
Per attuare il federalismo occorre una vera e profonda riforma istituzionale. E’ necessaria una reale rottura della “formula binaria” che continua di fatto a caratterizzare l’organizzazione della nostra Repubblica. Bisogna che cessi la coesistenza tra il filone del potere dell’ amministrazione centrale dello Stato accanto al filone delle autonomie locali.
Per rompere questa formula di organizzazione del potere pubblico occorre una grande operazione culturale sul solco della lezione gramsciana. Occorre cioè rompere i nostri feticci culturali in un ritrovato senso dello Stato e del prevalere dell’interesse generale sugli interessi particolari. Questa è la grande rivoluzione culturale e morale teorizzata da Gramsci.
2 commenti
1 Alfredo Lama
2 Luglio 2011 - 20:14
La Lega ha agitato lo spettro della secessione e scissione solo per costruire una (finta) contrapposizione ideologica, ma in realtà è un partito borghese che sostiene il capitalismo, non si differenzia da altri partiti fautori del capitalismo. Come avrebbe poptuto conquistare spazio politico affermando quanto già da altri sostenuto? Ecco, allora, la creazione di una ideologia. La diffrenza è tra chi vuole la socializzazione dei mezzi di produzione e chi si oppone,il resto sono solo chiacchiere:
2 Alfredo Lama
2 Luglio 2011 - 20:23
Gramsci sia pure con tutti i limiti dell’interpretazione revisionista che lo ha collocato con Togliatti tra coloro che non vedevano realizzabile la rivoluzione resta un grande che ha pagato di persona per le proprie idee a differenza di tanti che hanno fatto solo carriera nel PCI e che oggi affermano di non essre comunisti; è vero non lo sono ma aggiungo che non lo sono mai stati.
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