Tra frondisti e giacobini

10 Luglio 2008
4 Commenti


T.D.

Il centrosinistra sardo appare immerso in un groviglio inestricabile. Nella sua principale e determinante componente, il P.D., il fronte degli oligarchi si è scomposto: in parte (quelli di storia più recente -o con un minor numero di legislature regionali) si è collocato sotto la bandiera del Presidente della Regione; un’altra, piuttosto variegata, tenta di contrastarne il potere, quello istituzionale e quello interno al partito. Per storica e personale esperienza dei processi politici interni al ceto dirigente della sinistra sarda sono convinto che  nessuna delle due  parti ponga al primo posto il problema di vincere o di perdere nel prossimo confronto elettorale regionale col centrodestra. A un anno dalle elezioni, Il problema preliminare di entrambe le parti è quello di garantirsi il massimo risultato utile (ossia la presenza nell’assemblea legislativa) anche nell’ipotesi di una sconfitta elettorale. Questo è normale ed è possibile sempre, quale che sia il sistema elettorale vigente, compreso quello maggioritario. Ma è  per questo che l’invito di Cristina Lavinio (esplicitare con chiarezza quali sono gli argomenti di critica radicale e presentare una piattaforma politica più convincente rispetto a quanto rappresentato dal Presidente che vuole esser ricandidato, sia sotto il profilo dell’esperienza di governo regionale, sia sotto il profilo dell’ingresso a pieno titolo nel ruolo di dirigente politico -ma anche lui, non meno di Cabras, di una parte di quel partito), non troverà soddisfazione. Forse addirittura non ci saranno neppure le primarie, le quali, per potersi svolgere proficuamente, avrebbero bisogno della certezza che chiunque vinca sia poi riconosciuto meritevole di sostegno anche da parte di chi abbia perso: e non pare che questo sia il clima.  Manca, in entrambe le parti, la consapevolezza che la partita coinvolge ambienti, storie, opinioni, destini collettivi ben più ampi del ristretto ambito dei posizionamenti che sembrano essere in campo. Nella rappresentazione cui assistiamo si avverte che persino la collocazione di chi non può, quantomeno per difetto originario di radicamento elettorale, nutrire ambizioni dirette è esclusivamente caratterizzata dalla fidelizzazione all’una o all’altra area. Nessuno cerca di convincere l’altro; a nessuno importa di convincere chi sta fuori da entrambi i campi.  Del resto, se anche ci sforzassimo di distinguere, all’interno dei due campi, tra chi è determinato prevalentemente da un proprio tornaconto e chi è mosso solo da un orientamento spontaneo, sarebbe difficile fare una scelta. Del destino di un ceto superstite di oligarchi poco importa ai più, ma non appare particolarmente avvincente nemmeno la sostituzione di quel ceto:  se, infatti, non appassiona il deja vu post-diessino e post-margherito, non pare particolarmente attraente un nouveau anch’esso già vecchio, che ricorda i tratti dei rampanti d’antan, mentre  sempre più urticante, per chi abbia sensibilità culturali e politiche complesse, risulta l’esaltazione acritica del ruolo salvifico dell’uomo solo al comando. Il fallimento sta tutto qui. Non in singoli errori o sviste -in questo dissento da Cristina Lavinio, non foss’altro perché, come diceva Totò, “è la somma che fa il totale”- ma perché in questa esperienza, che avrebbe dovuto essere il compimento delle virtù di tutti noi che ne abbiamo promosso l’avvio, si sono manifestati invece tutti i peggiori vizi dell’èlite del centrosinistra sardo. Tra questi il più venefico è esattamente quello che ai progressisti (e segnatamente alla componente di sinistra) non viene mai perdonato: pensare che quel che facciamo, per il solo fatto che siamo noi a farlo, sia di per sè buono, anche quando non è molto diverso da quello che non esiteremmo a condannare senz’appello se lo facessero altri. Un vizio che assume dimensioni abnormi nelle versioni giacobine della difesa dell’esperienza in corso, accompagnandosi all’intolleranza verso chi dissente, all’accusa di infedeltà o di tradimento o al sospetto di collusione col nemico, talvolta, in perfetto stile staliniano, alla denigrazione, quando non all’autentica diffamazione personale.  Col senno di sessant’anni di storia italiana, costituzionale, repubblicana, democratica  e, aggiungo, autonomista, si può considerare una fortuna che certe componenti non abbiano mai prevalso: e siamo in tanti, tra coloro che nell’impegno politico indiscutibilmente democratico e di sinistra hanno speso attivamente più di metà della propria esistenza, a considerare, se non prioritario, certamente importante che non prevalgano mai. Perché sono componenti che ineluttabilmente pretendono di essere totalitarie. E accampano tale pretesa nonostante si siano rivelate talmente volubili dal poter passare, senza minima necessità di giustificazione, dalla contestazione degli apparati e delle oligarchie alla venerazione dei (del) leader. Un continuum che dal 1968 si ripresenta non solo come connotato di una generazione, ma anche come un suo lascito costante, trasmesso come testimone e come modello appreso e praticato dalle generazioni successive di stagione in stagione, a prescindere da qualsiasi coerenza democratica e sopratutto da qualsiasi vincolo con la fondamentale finalità dell’agire politico: servire l’interesse generale permanente e duraturo, quello della res publica, che non può coincidere con l’opinione di maniera di una cerchia ristretta, neppure della più illuminata. Alla fin fine questa fisionomia quasi antropologica del centrosinistra “reale”, quale è percepita a livello ormai molecolare, genera un rigetto sempre più diffuso. Le elezioni politiche e quelle amministrative del 2008 dimostrano che per contenere questo rigetto non basta evocare il pericolo incombente di una vittoria della parte avversa, perché il ricambio è comunque percepito dai più, se non come auspicato e necessario, certamente come ineluttabile e in qualche modo persino fatalmente benefico, “a prescindere”. Ecco perché, come Sergio Ravaioli, si è in molti, tra gli osservatori (sulla scorta non solo dei risultati elettorali negativi per il centrosinistra sardo -ben tre in successione tra il 2006 e il 2008- ma anche delle percezioni del mondo esterno alla politica, che capita di raccogliere giorno per giorno), a ritenere compromesso in modo praticamente irreparabile il risultato elettorale del 2009. Certo, la storia e i convincimenti personali strutturati di molti della mia generazione escludono salti di campo politici, ideologici, culturali.  Se in passato capitava di assistere con dispetto ai cambi repentini di casacca di tanti, volta per volta “più dalla parte giusta” di tutti gli altri, col tempo osservare le altrui mobilità è diventato invece fonte di considerazioni divertenti e comunque di soddisfazione per non far parte di quelle schiere. Per converso, la preoccupazione per le sorti del Paese nel quale viviamo, dopo le ultime elezioni, è acutissima e crescente. A me è capitato di recente, durante la breve, ma intensa permanenza in un lontano Paese dell’Africa, di scoprire che persino laggiù si ha un’immagine dell’Italia contemporanea come Paese dominato dalla corruzione politica, dalla malavita organizzata, dal razzismo, dalla violenza. La televisione arriva dovunque e le immagini dell’ultima seduta del nostro Senato della passata legislatura, con i fiaschi di spumante stappati nell’emiciclo, le mortadelle agitate tra i banchi, gli sputi tra gli alti rappresentanti della Nazione,  hanno avuto persino negli angoli più riposti  del mondo una diffusione altrettanto ampia di quelle delle cataste di rifiuti in Campania, delle rivolte e delle cariche di polizia. Al rientro ho ricominciato ad apprendere dalla lettura della nostra stampa che i punti principali all’ordine del giorno della politica nazionale erano diventati l’immunità giudiziaria delle alte cariche dello Stato, la schedatura dei Rom e il prelievo delle impronte digitali dei loro bambini, insieme alla “social card” per i meno abbienti.  Inevitabilmente la memoria è tornata al lontano Ventennio, all’impunità per le cariche di regime, alle leggi razziali, alle tessere annonarie. Di fronte a tutto questo non c’è dubbio alcuno su ciò che bisogna contrastare e su quelli che lo impersonano. E nonostante ciò possa destare qualche irritazione negli ambienti codini del centro-sinistra, non pare affatto fuori luogo sollecitare anche in modo ruvido le più alte istituzioni di garanzia costituzionale –tra le quali il Presidente della Repubblica- a svolgere il proprio ruolo con coerenza e inflessibilità. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che, per arginare il consenso massiccio ottenuto dall’attuale compagine di maggioranza nazionale alle trascorse elezioni politiche e confermato anche nelle successive elezioni amministrative, comprese quelle sarde, occorrerebbe dimostrare a tutti, in ogni realtà territoriale di questa Italia complessa, convulsa, in preda alle angosce dell’insicurezza e delle ineguaglianze, che esiste un’alternativa coerente, convincente, ragionante e dialogante con la società, quella viva, nella sua parte dolente come in quella carica di energie.  Tutto ciò si avverte assai poco nell’opposizione politica nazionale, ancora frastornata dalla sconfitta, ma nemmeno si avverte nella piccola realtà di provincia cui sempre più va riducendosi la Sardegna dei giorni nostri, dove cresce il malessere di un contesto economico e sociale che sta scontando la lenta e nondimeno inesorabile fine dei decenni dello sviluppo assistito senza che avanzi un’idea propulsiva diversa dall’accanimento turistico o dall’ossessivo marketing del folklore. Nel frattempo campeggia a sinistra, permanentemente, un’intellettualità che resta  (ma non se ne è mai accorta) il prodotto tipico di quei decenni, che alle battaglie e alle mode di quei decenni rimane retrospettivamente ancorata, che non produce da sé innovazione, ma delega anche quest’ultima al ruolo politico della monocrazia e al massimo si bea delle sue suggestioni estetiche e delle nuove opere architettoniche promesse. Nello schieramento del centro-sinistra lo scontro in atto è tra vecchi frondisti e vecchi giacobini, quasi un anticipo del clima da restaurazione post-napoleonica cui potremmo assistere fra, ormai, poco meno di un anno. Prendervi parte non pare proprio avvincente. Nessuno può scambiarci per nostalgici di un passato che abbiamo, molto prima di altri, denunciato e attivamente contrastato come intollerabilmente asfittico. Ma nessuno può neppure chiedere a chi da tempo è abituato a guardare la realtà fuori dagli schemi delle disamistades di periferia, la difesa “a priori” di un’esperienza che, partita da presupposti diametralmente opposti, quelli di liberare energie e di allargare un genuino consenso, sta invece determinando disaffezione e ripulsa. Non possiamo esserne né tanto meno vogliamo apparirne complici, soprattutto perché la storia, anche quella sarda, non finisce oggi né auspicabilmente finirà col risultato elettorale sardo (quale che sia) del 2009.

4 commenti

  • 1 Sergio Ravaioli
    10 Luglio 2008 - 12:56

    Bravo: un bellissimo intervento, che trasuda lacrime - e intelligenza - in ogni riga (ma perchè non ti firmi per esteso?!).
    Condivido tutto, però aggiungo: CHE FARE?
    Non mi sembra giusto impiccare il Paese, lo sviluppo della nostra Regione, ai non disinteressati errori dell’oligarchia di sinistra.
    Intuisco dalla tua prosa che anche tu, come me, non sei più un giovanotto, e quindi non ti poni il problema di fare carriera in questo devastato Paese e in questa sciagurata Regione.
    E però non possiamo accontentarci di scrivere begli interventi laddove ci viene graziosamente concessa ospitalità. Non possiamo accontentarci di contemplare (narcisisticamente ?) la nostra personale coerenza e integrità.
    E’ arrivato il “generale estate” e quindi andiamocene al mare.
    A settembre riprendiamo la riflessione, auspicabilmente non trascurando il CHE FARE ?

  • 2 Francesco Cocco
    12 Luglio 2008 - 19:01

    Caro T.D., grazie per questo tuo articolo così ricco di passione civile ed umana. Ma perché nobilitare una scontro di piccole (soprattutto in senso politico e morale) oligarchie in uno scontro tra “vecchi frondisti e vecchi giacobini”. Dov’ è la componente giacobina che Gramsci considereva essenziale per un moderno partito politico in grado, per la sua tensione, di operare una grande riforma culturale e morale? Io vedo in giro molto camaleontismo, molta volontà di entrare nelle grazie del principe, molta ricerca dei piccoli privilegi che vengono dal potere. Certo non nego che vi siano persone animate da grande ternsione ideale, ma mi paiono veramente pochi…………….e così il degrado diventa sempre più profondo !

  • 3 T.D.
    14 Luglio 2008 - 14:57

    Essermi guadagnato l’apprezzamento di Sergio Ravaioli e di Francesco Cocco mi gratifica non poco. A ciascuno di loro credo di dovere almeno una risposta. Anzitutto sulla citazione storica. Ho parlato di frondisti e di giacobini entrambi “vecchi”, intendendo invecchiati in senso proprio, come certi ambienti e personaggi che, dopo la restaurazione seguita alla definitiva caduta di Napoleone, sotto Luigi XVIII e Carlo X, continuarono mestamente gli uni (negli ambienti legittimisti) a coltivare i vezzi e gli intrighi della Fronda tipici dell’ancient régime, gli altri (negli ambienti antiborbonici) a covare i rancori della Rivoluzione, sconfitta insieme a quell’Impero che per molti era stato di essa il tradimento e che altri invece avevano vissuto come una proiezione. Ho voluto anticipare il clima che si potrebbe creare nel centrosinistra sardo dopo la sconfitta elettorale possibile del 2009 e che mi pare, anzi, si stia già creando prima ancora della stessa. Non ho voluto con questo nobilitare alcuna delle parti in causa. In nessuno dei due campi si respira oggi qualcosa di utile per un futuro dinamico della Sardegna: si agitano in essi prevalentemente le vecchie consorterie di un potere clientelare e i non meno vecchi circoli, quando non salotti, delle velleità totalitarie e delle invettive malevole, non disgiunte entrambe da un più pragmatico servilismo opportunistico. S. Ravaioli e F. Cocco, come me, saranno –ne sono certo- arcistufi di tutti e due gli ambienti, avendo dovuto, come me, malsopportare gli uni e gli altri anche in periodi nei quali si poteva coltivare la fiducia che la buona politica, nei partiti, nelle istituzioni e nella società, prima o poi, avrebbe soppiantato i primi e relegato gli altri in una nicchia relativamente inoffensiva. Se nella mia riflessione è emerso che questa fiducia mi sta venendo a mancare, non penso ci si debba sorprendere: caso mai, poche ore dopo averla scritta, mi si fosse riacceso un qualche stimolo sul “che fare”, è bastata la lettura del parere dell’ex-Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida sul referendum statutario per spegnermelo. Onida non fa parte né dei vecchi frondisti sardi e nemmeno dei vecchi giacobini, né sardi né di altre realtà. E’ un giurista ed un intellettuale di livello nazionale del centro-sinistra che ha, proprio contestualmente al suo impegno di costituzionalista contro il lodo Alfano, sottoscritto un parere pro-veritate suggerendo al Presidente della Regione sarda la più incostituzionale delle soluzioni all’affaire della promulgazione della legge statutaria. Questo non significa soltanto (e per me, che sono autonomista, è già grave) che, nella sua considerazione, la promulgazione della legge regionale “statutaria” di una Regione speciale equivale all’adozione di un atto di nessun valore istituzionale (quasi fosse la pratica burocratica di un contributo, da evadere alla bell’e meglio, senza troppe formalità, magari con qualche artifizio), ma anche –e questo è ancora più gravido di implicazioni- che la coerenza costituzionale, nel centrosinistra, è diventata un optional. Ma venuta meno, volta per volta, questa coerenza, cosa resta della base culturale ed etica del filone democratico di questa Repubblica e del filone autonomistico di questa Regione? C’è da stupirsi se la fiducia dell’elettorato va affievolendosi e se, pragmatismo per pragmatismo, arrangiarsi per arrangiarsi, o subire per subire, dilaga in ambiti crescenti, anche a noi vicini (ma sui quali noi stessi non abbiamo quasi più influenza), l’idea che tanto vale un centrodestra spericolato e sfacciato piuttosto che un centrosinistra così incoerente quanto ipocrita? Che fare, caro Ravaioli? Intanto, continuare ad essere quel che si è e dire quel che si pensa resta un servizio alla libertà, anche a quella altrui: non lo liquiderei come narcisismo, salvo non si consideri il pensare, il descrivere e il comunicare come mere manifestazioni di inerzia autocontemplativa. Quanto all’agire nella prassi politica, io oggi non saprei davvero dire dove e come, visto che –ci avete fatto caso?- una precisa scelta accomuna il partito liquido di Veltroni & c. alla sclerotica sinistra residua post - P.C.I. (che però del ruolo nazionale del P.C.I. quantomeno, per una lunga fase storica, di grande interprete collettivo di interessi generali, non ha più neppure memoria): quello di aver chiuso ogni sede, anche fisica, di discussione aperta e diffusa. Anche qui non si tratta di una mutazione da poco nella storia della democrazia italiana. Far venire meno il tessuto dei circuiti nei quali ogni persona disponibile poteva avere la sensazione di concorrere alle decisioni pubbliche, non nella solitudine che si ha di fronte ad uno schermo e ad una tastiera, ma nel confronto in presenza di altre persone, significa aver delegittimato la stessa funzione che giustifica, nelle forze politiche, il dirsi “democratiche” o ispirate al socialismo. Nel contempo ciò significa aver minato la base materiale della propria permanenza e la propria proiezione, come forze politiche, nel futuro. “Zoccoli duri” non ce ne sono più e nessun personalismo leaderistico può surrogare un consenso materiale e culturale strutturato. Anche dire questo, denunciarne i rischi e provare a suscitare allarme (come in precedenti occasioni hanno fatto meglio di me e spero continueranno a fare S. Ravaioli e F. Cocco) è, a mio avviso, un servizio alla democrazia.

  • 4 GIORGIO COSSU
    24 Luglio 2008 - 19:08

    Due punti minori, la definizione con quel che ha di incerto mi pare fuori misura, i frondisti sono solo conservatori e mediatori, una fronda senza direzione, i giacobini non hanno né lucidità, né statura, solo un insieme di moralisti, improvvisati alla politica, confusi nella linea sicuri nell’essere contro. Questo oscura i limiti politici dell’insieme dei soriani. Da un lato è troppo condiscendente, non ne vede la inconsistenza, e per converso si inibisce un’analisi dei limiti più gravi assenza di disegno, prevalere di idee confuse, rigore come valore, liberiste e eccesso di vincoli e centralismo, di destra, negazione di pluralismo e regole politiche.
    Secondo non di un groviglio inestricabile si tratta ma di cul de sac causato dai continui rilanci e strappi di Soru, dal ricatto del fare, con atti squilibrati, sbilenchi, populisti di natura varia, misto di cultura regressiva e modernità slegate e atti e opere esemplari, da cui si può uscire con una strategia di riforme condivise da una classe dirigente finora estranea ai due gruppi.
    Che la sinistra sia destinata ad essere giacobina per cultura o persino in via antropologica mi pare escluso dai fatti, Ricolfi insiste sulla presunzione e antipatia, ma questa mala erba mi sembra assai diffusa a destra e al centro, ma cosa è avvenuto in Sardegna con Soru? che un gruppo eterogeneo ha creduto di poter entrare in politica senza una cultura ed una selezione, i primi e i più fedeli si affermano, con un programma ricco di contraddizioni, privo di una politica di intervento sullo sviluppo, affidato al rigore senza una strategia e all’idea dell’identità come valore competitivo con alcune punte sulle nuove attività esistenti centri eccellenza e ICT. Ha avuto intorno i più disinvolti di alcuni gruppi ds dl, e qualche tecnico. Molti hanno lasciato e son restati i più fedeli e con spirito gregario, tipico di tutti gruppi in una lotta incerta di potere, che non ha rapporti con la rigidità moralistica intorno ad un disegno, non con intellettuali né con l’élite, tanto meno con la sinistra. Già Gramsci avvertiva che gli intellettuali non erano i letterati ecc., oggi direi della cultura come consumo, ma quelli capaci di collegare la competenza anche tecnica ad una visione complessiva, allora un tecnico privo di una visione che crede di dover fare i conti da ragioniere non entra nella categoria, e tanto meno entra nella sinistra che implica altri due elementi: innovazione e modifica dei rapporti sociali e di potere. Altra condizione riguarda l’élite, si forma se c’è un confronto ed una selezione in cui il ruolo si affermi, dentro processi popolari, dentro confronti culturali e politici, dentro città o gruppi sociali vivi, non era questa la situazione dei compagni di cordata di Soru.
    La benevolenza personale ed illusione su attori modesti ti porta a non vedere il nodo teorico, l’assenza in questi di una cultura economico sociale moderna, ma di tecniche conservatrici e liberiste, (o archeologi fermi a valori passati, antropologi a difesa di identità e costumi, urbanisti e tecnici neo-ecosostenibili, letterati da salotto, persone in carriera). Questo vuoto è stato riempito dall’illusione del ricambio facile con metodi non pluralistici e non democratici, ma senza un disegno, con la costante del rigore e del fare contro, da cui l’eccellenza, ricerca solo avanzata, dispersione verso nicchie e identità, rampogne a forze sociali, rottura continua e conflitti.
    La sinistra è punita per essere orfana di una teoria generale, orfana del marxismo, da un lato pencola nella mediazione e nella realpolitik limitata a qualche aspetto retributivo, incerta nei rapporti sociali, le frange coltivano forme antisistema prive di orizzonte. L’alternativa richiede una teoria dello sviluppo, quindi economico-sociale e ambientale, un impegno intellettuale comune da cui emerga quella capacità di leadership non fondata sul partito o sulla rappresentanza di una classe, ma di interessi diversi, di problemi più complessi con istituzioni più moderne in cui si rifletta una accentuata dinamica culturale. La questione dei riformatori è questa e richiede quindi un lavoro comune, per ripulire l’area dalle improvvisazioni miste di autoritarismo e populismo che si basa sul mercato, privo di teoria dell’intervento, cerca di mettergli le braghe, con vincoli diffusi, con misto di identità e fughe e improvvisazioni da bricolage: grandi opere e azzardi, piani vuoti e sbilenchi, scommesse e rilanci privi di progetto. Concordo sul modo nostalgico e revanchista che il vaso di pandora del populismo lascerà sul terreno. A maggior ragione, rigore che vada al nodo teorico, non ci sono intellettuali ed élite di sinistra, ora non c’è che il bisogno di una linea di riforme di ampio respiro, cui contribuire con il confronto attento a costruire una cultura ricca e coerente.

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