Gianna Lai
Più che la festa delle donne, tutti gli indicatori dicono che alle donne oggi, sempre più, si fa la festa, Il lavoro è la cartina di tornasole di questo deterioramento della posizione e del ruolo delle donne nella società. Certo non c’è allegria in queste cifre, e non sono in sintonia col clima di una festa. Ma l’8 marzo è nato come giorno di lotta e queste cifre ci chiamano tutti ad un nuovo impegno generale.
Buon 8 marzo a tutte le lettrici!
Nei primi mesi del 2011 hanno perso il lavoro in Italia 38 mila uomini e 45 mila donne, già duramente provate dal part-time e dal lavoro precario, per il 60%destinato appunto alle donne. Eppure è sempre più forte la richiesta femminile di lavoro in questi anni in Italia, ed è fenomeno generale se pensiamo che in America il numero delle donne occupate ha superato quello degli uomini.
20 mila posti di lavoro in meno in Sardegna tra 2008 e 2009, disoccupazione al 16%, giovanile a 44,7% a seguito della crisi dell’industria, con una aggravamento mai visto del fenomeno della Cassa integrazione, ordinaria straordinaria e in deroga per migliaia di operai. La crisi ha colpito quello che è rimasto dell’industria in Sardegna, Portovesme, Portotorres ed Ottana, in un’Italia sempre più favorevole alla politica globalizzata del lavoro, che spinge verso il basso, verso le condizioni dei lavoratori dei paesi più poveri, proprio attraverso precarità, lavoro nero e sfruttamento degli immigrati. Comuni, Province e sindacati cercano di affiancare la protesta ma con ruolo marginale, senza che classe politica e governo regionale e nazionale adottino politiche per combattere i licenziamenti.
Partendo dal dato importante che al Nord lavora oltre i 2/3 delle donne, ma solo la metà nel Mezzogiorno, in Sardegna la durezza della crisi ha colpito diversamente l’occupazione femminile, quella più debole in termini di garanzie e di salario, peggiorandone la qualità e cancellandone tutele acquisite.
Entrate nel mercato del lavoro negli anni Settanta, a seguito dell’istituzione della scuola media obbligatoria e di una forte nuova consapevolezza legata ai movimenti femministi del tempo, le donne in Sardegna hanno recuperato occupazione nel terziario, avendo acquisito prima degli uomini quei titoli di studio medio-alti necessari per accedere alla Pubblica amministrazione, ai Servizi, ecc. Insieme alla disponibilità delle donne al lavoro, è cresciuta per 15 anni l’occupazione femminile in Sardegna, che adesso, nel 2009, diminuisce come nel resto d’Italia, con 231 mila occupate, 44mila donne in cerca di occupazione, e 9 mila che non lo cercano più il lavoro, su una popolazione di 847mila donne. E lo scoraggiamento le colpisce, per le crescenti e maggiori difficoltà a trovare un’occupazione a causa della rigidità del mercato isolano, del quale sono di più loro a percepire e a subire l’incapacità di fornire opportunità. Pur restando sempre forte la loro disponibilità al lavoro, senza il quale percepiscono limitata la loro esistenza.
5 mila donne in agricoltura, erano 7 mila nel 2007, 12 mila nell’industria, 13 mila nel 2007, 213 mila nei servizi, nel terziario, attualmente in crescita rispetto alle 202 mila donne occupate nel 2007, per un totale di 231 mila donne lavoratrici, di cui 157mila a tempo pieno, secondo i dati Istat (ma su servizi e professioni occorrerà tornare). Sciocco dire che la maggiore flessibilità delle donne sia per loro un vantaggio in tempo di crisi, dato che la flessibilità è gestita in termini autoritari dall’azienda a partire dal primo inserimento, sempre precario. Il lavoro delle donne in Sardegna è oggi caratterizzato da occupazioni a tempo parziale, stagionale e intermittente, mentre loro lo vorrebbero a tempo pieno. Da forme contrattuali atipiche nelle quali sono ridotte, oltre l’orario e le retribuzioni, anche le condizioni di sicurezza sociale. Dal part-time generalizzato, di gran lunga superiore a quello maschile, che ben 75 mila donne subiscono nel 2010 (contro le 62mila del 2007), e che genera effetti di lavoro precario, impedendo ogni progressione di carriera e di crescita professionale: su queste basi poggiano le ragioni per le quali non cala massicciamente l’occupazione femminile in Sardegna. E poi c’è il lavoro nero, la piaga della nostra isola come dell’intero meridione, e i bassi salari. E il venir meno delle tutele, a partire dalla barbara imposizione delle dimissioni in bianco al momento dell’assunzione, che consente al datore di lavoro di licenziare in caso di maternità, un arbitrio che Prodi aveva cancellato, ma che Berlusconi ha ripristinato, un comportamento degli imprenditori rafforzato dalla mancanza lavoro stabile, una grave discriminazione nei confronti delle donne che, proprio in presenza di figli, cercano invece di rimanere di più nel mercato del lavoro, anche in Sardegna, dove il welfare è quasi del tutto venuto meno.
Tuttavia, le donne npn si lasciano intimorire. Lo abbiamo visto nei recenti scioperi indetti dalla CGIL per l’occupazione e nelle manifestazioni degli studenti in difesa della scuola pubblica e dell’Università: la crisi del lavoro non ha mai fiaccato lo spirito delle donne, e non ha mai fatto venir meno la loro opposizione alle politiche discriminatorie di questo governo e di questa destra, anzi ha dato vita al movimento del 13 febbraio, nello slogan del “se non ora quando”, che ha riaperto il dibattito di questo nuovo 8 marzo a Cagliari e in tante cittadine della Sardegna, come nel resto d’Italia.
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