La mia scuola di stato e il mio disgusto

12 Marzo 2011
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Gavino Corda

L’ho conosciuta fin dal mio primo ingresso nel mondo del lavoro. Erano tempi in cui lo Stato aveva bisogno di personale per adempiere ai suoi compiti primari come assicurare la scuola dell’obbligo anche nell’angolo più sperduto della Repubblica.
Lo stato selezionava attraverso concorsi il personale ed assumeva. Anche allora c’erano gli insegnati precari, ma la loro attesa non era avvilente e disperata come oggi.
L’ho conosciuta la scuola di Stato quando mi fu affidata una classe di 56 alunni, dentro un’aula di normali dimensioni. Fate voi il rapporto tra metri quadri e studenti.
L’ho conosciuta quando per raggiungere il villaggio del basso Sulcis, dovevo percorrere un tratto sulle ferrovie statali, un altro sulle Meridionali, un altro tratto in bicicletta. L’inverso per tornare. Dalle 6 del mattino alle 18 del pomeriggio: 12 ore per farne 4 di lezione.
Più avanti lo stato mi affidò una quarantina di bambini iscritti a 5 classi diverse. Mi attendevano al mattino, nella scuoletta della frazione di miniera e io li raggiungevo dopo una quindicina di Km percorsi tra il fango e i “Perlini” carichi di minerale, a cavallo di uno scooter comprato a rate.
Già, le rate.
Le rate necessarie ad arrivare (incespicando) alla fine del mese, senza spendere niente di più del necessario per la pura sussistenza. Anche questo era la scuola di stato. La scuola di stato di chi, fortunato, vinceva un concorso! Chi non riusciva e restava precario doveva accontentarsi di un incarico annuale di scuole popolari per adulti. Si guadagnava una manciata di migliaia di lire al mese e bisognava aggiungerne almeno altrettante per poter resiedere nel centro in cui funzionava il corso. Ma il punteggio conseguito, serviva ad accorciare i tempi del precariato e raggiungere, prima o poi, il sospirato “ruolo”.
Erano privati i gestori di queste scuole? Sfruttatori che badavano al solo profitto?
No, le scuole erano statali. Nella peggiore delle ipotesi a gestione regionale.
Ho imparato ad accettare queste condizioni di lavoro. Salvo ad agire in ambito sindacale e politico per rivendicare condizioni più dignitose. C’era possibilità di crescere con un lavoro così impegnativo che richiedeva continuo aggiornamento, necessità di superare la rigidità dei programmi e delle tecniche didattiche per offrire il meglio ai bambini ed alle famiglie.
Aggiornamenti a spese degli insegnanti, o delle loro associazioni. Ricordo che per frequentarne i corsi, dovevamo utilizzare i 30 gg. di permesso che il contratto di lavoro ci garantiva “per motivi di salute”.
La maturazione culturale e professionale del personale insegnante ha sviluppato un percorso parallelo alla crescita del Paese. Son cresciuti gli insegnanti e si è qualificata la scuola. C’è stata la consapevolezza di contribuire ad un progresso civile insieme agli altri settori della società. Tutto questo senza ignorare la dialettica con le scuole non statali, cui è stato comunque riconosciuto un ruolo ed un diritto, nei limiti del dettato costituzionale.
Tutto questo non senza incorrere in ispezioni dei dirigenti scolastici, volte a controllare se in classe si diceva la preghiera all’inizio ed alla fine della lezione. L’esenzione dall’insegnamento della religione, prevista dalle norme contrattuali non era salvacondotto sufficiente per evitare cerimonie ed atti di culto celebrati collettivamente.
Questa era la scuola di stato che ho conosciuto e che ho servito e rispettato com’è dovere di un cittadino della repubblica. La scuola di stato che alla fine del percorso di servizio mi ha riconosciuto ben 1200 € di pensione mensili. E’ difficile restare indifferenti alle affermazioni di chi disconosce il valore storico della scuola di stato e contestualmente banalizza gli sforzi della categoria che ha contribuito a realizzarlo.
Se è un’autorità statale a farle, l’amarezza diventa disgusto.
…Meno male che ci sono i vescovi!…

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